Era un giorno come tanti altri per Suzie Cheikho, consulente presso Insurance Australia Group (IAG) in Australia. Seduta alla sua scrivania da remoto, Suzie digitava diligentemente (ma poco), inconsapevole che ogni singolo tocco sulla tastiera veniva registrato.
Quel giorno il suo mondo lavorativo sarebbe crollato. Dopo 18 anni di servizio, il suo licenziamento è arrivato come un fulmine a ciel sereno, e tutto a causa di una tecnologia di rilevamento dei tasti che ha rivelato una “bassa attività di digitazione”. Scusate l’inizio un po’ in stile “Rieducational Channel”, sorrido per non piangere. Preparatevi a immergervi in un caso che merita una riflessione.
La sorveglianza digitale tocca nuove vette
Nell’era del lavoro remoto, la fiducia tra datore di lavoro e dipendente è fondamentale. Perché se quella fiducia viene meno, si generano mostri. Insurance Australia Group (IAG) ha utilizzato una tecnologia di rilevamento dei tasti della tastiera per monitorare le prestazioni di una sua dipendente. Poteva farlo? È etico, corretto?
Ironia della sorte, Suzie Cheikho era proprio responsabile (tra altre cose) del rispetto delle scadenze normative e del monitoraggio della “conformità al lavoro da casa”. Ed è stata licenziata per aver mancato scadenze e riunioni, e per essere stata assente e irraggiungibile.
La Commissione per il Lavoro Equo dell’Australia (FWC) ha respinto la sua domanda di licenziamento “ingiusto”, sostenendo che il suo licenziamento è avvenuto per un “motivo valido di cattiva condotta”. Suzie ha sostiene invece di essere stata presa di mira a causa dei suoi problemi di salute mentale. Chi ha ragione?
Keystroke: un occhio implacabile
La tecnologia di rilevamento dei tasti non è nuova, ma il suo utilizzo nel monitoraggio dei dipendenti che lavorano da remoto ha sollevato parecchie domande etiche. L’azienda australiana ha tracciato l’attività cibernetica di Suzie per 49 giorni tra ottobre e dicembre, rilevando una “bassissima attività di digitazione”.
La. Dipendente ha negato di aver lavorato meno delle ore stabilite, affermando di aver utilizzato altri dispositivi per accedere. Era “confusa e scioccata” dai dati e ne ha messo in dubbio l’accuratezza.
Monitoraggio remoto e giudizio finale
Per il Vicepresidente della FWC, Thomas Roberts, le prove mostravano che Suzie “non stava lavorando come richiesto durante le sue ore di lavoro designate”. La situazione è sfortunata, ma il licenziamento non è stato considerato ingiusto o irragionevole.
Questo caso ci pone di fronte a una nuova realtà del lavoro remoto. Fino a che punto le aziende possono monitorare i loro dipendenti? Dove si trova il confine tra la privacy e la responsabilità lavorativa? E soprattutto, come possiamo bilanciare la fiducia e la sorveglianza in un mondo sempre più connesso?
La storia di Suzie è un serissimo campanello d’allarme che ci invita a riflettere sul futuro del lavoro e sulla nostra relazione con la tecnologia. Forse è il momento di chiederci: si è davvero più liberi quando si lavora da remoto, o si è semplicemente sotto un nuovo tipo di supervisione?
Per non parlare di quello che si sta muovendo.