Quanto tempo ci vuole perché la natura si riprenda da un ecocidio? Se cercate la risposta, pensate al Vietnam. Cinquant’anni e più dopo la fine del conflitto, ecosistemi degradati e suoli contaminati dalla diossina raccontano ancora le conseguenze ecologiche di lungo termine della guerra.
Il termine “ecocidio” fu coniato proprio alla fine degli anni ’60 per descrivere l’uso militare americano di erbicidi come l’Agente Orange e di armi incendiarie come il napalm contro le forze di guerriglia che usavano giungle e paludi come nascondiglio. Quello che doveva essere un vantaggio tattico temporaneo si è trasformato in una ferita persistente che continua a suppurare ignorata da tutti, mentre conflitti come quelli di Gaza e Ucraina ripetono schemi simili.
Un paesaggio che grida in silenzio
Le cicatrici del Vietnam non sono solo metaforiche; le potete toccare, vedere, misurare. Percorrendo oggi alcune zone del paese, incontrerete ancora suoli incapaci di sostenere la biodiversità originaria, acque che nascondono concentrazioni di diossina ben oltre i limiti di sicurezza, mangrovie che sembrano spettri di ciò che erano.
L’Operazione Ranch Hand spruzzò almeno 75 milioni di litri di erbicidi su circa 2,6 milioni di ettari del Vietnam del Sud, con più della metà rappresentata dall’Agente Orange alla diossina.
I veterani americani (e chiaramente i vietnamiti) sono stati riconosciuti come vittime degli effetti sulla salute dell’Agente Orange, ma la terra? La terra continua a soffrire in silenzio. Le foreste, un tempo brulicanti di centinaia di specie, sono state ridotte a frammenti invasi da erbe infestanti. Nella valle di A Lưới, nell’80% delle foreste esposte agli erbicidi la biodiversità non si era ancora ripresa nei primi anni ’80, con soli 24 specie di uccelli e 5 di mammiferi. Un deserto ecologico, praticamente.
E dire che ci ostiniamo a non vedere il nesso tra salute umana e salute degli ecosistemi; come se potessimo stare bene mentre il mondo intorno a noi collassa.
Ecocidio, la lentissima marcia del ripristino
Sorrido amaramente quando sento parlare di “rapida ricostruzione post-bellica”. Al massimo possiamo ricostruire edifici, non ecosistemi. Pensate che il primo accordo di bonifica tra Stati Uniti e Vietnam è arrivato solo nel 2006, dopo decenni di negazioni e resistenze. Il progetto all’aeroporto di Da Nang, completato nel 2018, ha trattato 150.000 metri cubi di terreno contaminato da diossina a un costo di oltre 115 milioni di dollari.
Nei pressi della base aerea di Biên Hoà, gravemente contaminata, i residenti locali continuano ad ingerire alti livelli di diossina attraverso pesce, pollo e anatre. I barili di Agente Orange erano immagazzinati proprio lí: grandi quantità della tossina si sono disperse nel terreno e nell’acqua, dove continua ad accumularsi nei tessuti animali mentre risale la catena alimentare.
E pensate che questi sono soltanto i siti noti. Quante altre aree contaminate attendono ancora di essere identificate e bonificate?
Le leggi che non funzionano
Sul fronte legislativo, siamo bravi a scrivere parole sulla carta e pessimi nell’applicarle. Nel 1977, le Convenzioni di Ginevra che governano la condotta durante la guerra sono state riviste per proibire “danni diffusi, duraturi e gravi all’ambiente naturale”. Certo, come no. Un protocollo del 1980 ha limitato l’uso di armi incendiarie. Eppure gli incendi petroliferi appiccati dall’Iraq durante la Guerra del Golfo nel 1991 e i recenti danni ambientali nella Striscia di Gaza, in Ucraina e in Siria indicano i limiti di affidarsi ai trattati quando non esistono meccanismi forti per garantirne il rispetto.
Proprio il Vietnam è stato il primo paese a dichiarare legalmente nel suo codice penale che “l’ecocidio, la distruzione dell’ambiente naturale, sia commesso in tempo di pace o di guerra, costituisce un crimine contro l’umanità”. Eppure la stesse legge vietnamita non ha portato a processi, nonostante diversi gravi casi di inquinamento.
Anche la Russia e l’Ucraina hanno leggi sull’ecocidio, ma queste non hanno prevenuto danni né ritenuto qualcuno responsabile durante il conflitto in corso. Leggi che esistono solo sulla carta, insomma, e che nessuno si preoccupa di applicare.
Ecocidio, un monito per il futuro
I conflitti attuali come quelli di Gaza e Ucraina mostrano chiaramente che non abbiamo imparato la lezione. Gli strumenti moderni (come le immagini satellitari utilizzate in Ucraina per identificare incendi, inondazioni e inquinamento) offrono maggiori possibilità di monitoraggio rispetto a cinquant’anni fa. Ma non possono sostituire il monitoraggio sul campo, spesso limitato o pericoloso durante i conflitti.
È in corso una campagna internazionale che chiede una modifica dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale per aggiungere l’ecocidio come quinto crimine perseguibile accanto a genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra e aggressione. Ma senza una volontà politica concreta, rischiamo di produrre solo altra carta.
La guerra in Vietnam ci ricorda che il fallimento nell’affrontare le conseguenze ecologiche, sia durante la guerra che dopo, avrà effetti a lungo termine. Ciò che manca è la volontà politica per garantire che questi impatti non vengano né ignorati né ripetuti.
Mentre le bombe cadono su Gaza e l’Ucraina brucia, la natura conta silenziosamente le sue vittime. Un giorno, tra cinquant’anni, qualcuno scriverà degli ecocidi di questi conflitti? O forse, per allora, avremo già normalizzato anche questo tipo di distruzione?