Ci sono momenti nella vita in cui vi rendete conto che il mondo è cambiato senza che ve ne siate accorti. Per me è successo quando ho immaginato cosa avrebbe detto mia nonna, andata via a 95 anni, ad un nuovo “assistente”: un robot alto mezzo metro con gli occhi LED e una voce dolce che le ricorda di prendere le medicine. Lo so, avrebbe sorriso e poi aggiunto “è più paziente di tutti voi”. E poi ho realizzato che non stavo immaginando solo una tecnologia, ma un importante cambiamento nelle relazioni umane. I robot sociali non sono più il futuro: sono il presente. Riscriveranno le regole dell’intimità, della cura e (forse) perfino dell’amore.
Quando i numeri raccontano una trasformazione
Il mercato globale dei robot sociali ha raggiunto i 5,05 miliardi di dollari nel 2024, con una crescita prevista del 32,40% annuo fino a toccare i 30,38 miliardi entro il 2030. Non sono cifre casuali: rappresentano una risposta concreta alla crescente carenza di personale sanitario e al fenomeno dell’isolamento sociale che affligge milioni di persone. Blue Frog Robotics, Amy Robotics e Intuition Robotics sono tra i player che stanno guidando questa trasformazione, progettando macchine che non si limitano a svolgere compiti, ma creano connessioni emotive autentiche.
Ma cosa rende davvero “sociali” i robot? La risposta arriva dal progetto SPRING dell’Unione Europea, che ha testato robot umanoidi su oltre 90 pazienti e 30 operatori medici negli ospedali geriatrici. Xavier Alameda-Pineda, coordinatore del progetto, spiega che questi robot devono “percepire e interpretare accuratamente i segnali di più esseri umani per rispondere appropriatamente”. Non basta riconoscere una voce: bisogna capire il contesto, leggere le emozioni, adattarsi alle sfumature dell’interazione umana. Mica facile.

Robot sociali, l’empatia artificiale che funziona davvero
I risultati più sorprendenti arrivano dal settore pediatrico. Studi recenti mostrano come i bambini, fin dai primi mesi di vita, stabiliscano contatti visivi significativi con i robot sociali, sviluppando attraverso queste interazioni capacità di osservazione e imitazione cruciali per la crescita. NAO e Pepper, i robot più utilizzati in questo ambito, stanno dimostrando particolare efficacia nel supporto a bambini con disturbi dello spettro autistico.
“I robot offrono interazioni prevedibili e ripetitive che promuovono il miglioramento delle competenze comunicative e sociali”, spiega una ricerca pubblicata su Frontiers in Robotics and AI. La prevedibilità, spesso vista come limite nelle relazioni umane, diventa qui un punto di forza: per un bambino autistico, sapere esattamente come reagirà il suo compagno robotico crea un ambiente sicuro per sperimentare e crescere.
Il paradosso della solitudine tecnologica
Ovviamente, come per tutte le tecnologie di frontiera, dietro questi successi si nasconde un paradosso inquietante. Come ho sottolineato in questo articolo, l’uso crescente di robot sociali rischia di sostituire, anziché integrare, le relazioni umane autentiche. Quando un anziano preferisce la compagnia del suo robot assistente a quella dei familiari, dobbiamo parlare di progresso o di sconfitta dell’umanità? Forse nessuna delle due cose. O forse entrambe.
La foca robotica PARO, utilizzata nelle terapie per pazienti con demenza, costa oltre 5.000 euro ma offre un conforto che gli operatori umani faticano a garantire. Non si stanca, non si irrita, non ha mai fretta. Ricerche dell’Università di Denver dimostrano che questi robot riducono l’ansia e migliorano l’umore dei pazienti, ma sollevano una domanda cruciale: stiamo curando la solitudine o la stiamo istituzionalizzando?

Il (lento) sbarco nelle case
I trend per il 2025 indicano che i robot sociali usciranno definitivamente dagli ambienti specializzati per entrare nelle case comuni. L’International Federation of Robotics prevede un’esplosione delle applicazioni domestiche, dai compagni per anziani soli agli assistenti educativi per bambini.
Ma siamo preparati? Come scrivevamo in un approfondimento del febbraio 2024, l’intelligenza ibrida (quella che nasce dalla collaborazione tra umani e macchine) richiede nuove competenze sociali ed emotive. Dovremmo insegnare ai nostri figli come relazionarsi con robot empatici? E come distinguere l’empatia autentica da quella programmata?
Robot sociali, il confine sottile tra cura e dipendenza
La vera sfida, ancora una volta, non è tecnologica ma etica. Uno studio pubblicato su Science Robotics ha dimostrato che i robot sociali possono fungere da “catalizzatori conversazionali”, migliorando la qualità delle interazioni tra genitori e figli durante attività condivise. Ma quando la macchina diventa mediatore necessario per le relazioni umane, stiamo costruendo ponti o dipendenze?
I robot sociali sono l’ultimo paradosso della nostra epoca: nel tentativo di rendere le macchine più umane, rischiamo di diventare noi più meccanici. La vera questione non è se questi robot funzioneranno (funzioneranno eccome), ma se siamo disposti ad accettare un mondo dove l’empatia può essere programmata e la compagnia acquistata.
Perché, alla fine, mia nonna avrebbe avuto ragione: il robot è davvero più paziente di noi. Cosa possiamo fare per dirci, anzi: per essere davvero migliori di lui?