Le grandi aziende tecnologiche sono già forme di superintelligenza collettiva. Questo è il provocatorio punto di partenza dell’ultima riflessione di Mark Zuckerberg sull’impatto dell’AI. Durante un recente podcast, il CEO di Meta ha lanciato un’idea che ribalta la narrativa comune: non dobbiamo aspettare che l’intelligenza artificiale superi quella umana, perché in un certo senso è già successo.
“Se l’intelligenza di un’azienda di 10.000 persone non è maggiore dell’intelligenza di una singola persona, allora cosa stiamo facendo qui?”, si chiede retoricamente. La vera novità? Presto questa potenza collettiva non sarà più appannaggio di pochi privilegiati, ma disponibile per tutti.
L’impatto dell’AI come democratizzazione del potere
L’intuizione di Zuckerberg è piuttosto ottimistica. Forse troppo. Prima di spaventarci per l’arrivo di una superintelligenza artificiale, dice, dovremmo renderci conto che forme di “intelligenza superiore” esistono già nel nostro mondo. Un’azienda con migliaia di dipendenti rappresenta un sistema collettivo che supera di gran lunga le capacità cognitive di qualsiasi singolo individuo.
“Penso che avremo un’intelligenza generale,” ha affermato durante l’intervista. “Avremo sistemi più intelligenti di qualsiasi individuo, e credo che questo sarà principalmente molto vantaggioso per le persone.” Parole che vorrebbero suonare quasi come un antidoto all’ansia collettiva che circonda l’evoluzione dell’AI.
La vera svolta, secondo il fondatore di Meta, non sarà l’emergere di qualcosa di completamente nuovo, ma la redistribuzione di un potere già esistente. “Nel futuro quasi tutti avranno questo potere,” prevede, riferendosi alla capacità di orchestrare risorse intellettuali paragonabili a quelle di un’organizzazione di 10.000 persone. Per farci cosa?

Un futuro di unicorni solitari e geni digitali
Non è il primo leader tecnologico a proporre questa visione. Sam Altman di OpenAI ha parlato di “unicorni solitari” (startup valutate oltre un miliardo gestite da una sola persona) mentre il CEO di Anthropic, Dario Amodei, ha descritto l’AGI come “un paese di geni in un data center”.
L’immagine è potente: ogni individuo con accesso all’AI potrebbe disporre di capacità produttive e creative simili a quelle di intere nazioni o aziende. Eppure, come ben sappiamo, non tutte le grandi organizzazioni hanno successo; molte falliscono nonostante le loro dimensioni e risorse.
Mi piace pensare, conclude il CEO di Meta, che l’impatto dell’AI non sarà tanto nel sostituire l’intelligenza umana, quanto nell’amplificarla, creando una sorta di leva cognitiva che permetta a ciascuno di noi di esprimere il proprio potenziale in modi oggi inimmaginabili. Ma come per ogni strumento potente, sarà la nostra umanità a fare la differenza.
Mi spiace aggiungere note stonate a questo canto gregoriano, ma credo che un problema possa esserci. La vera sfida non sarà tanto l’accesso a questo potere, quanto la capacità di orientarlo in direzioni costruttive. Avere un’azienda virtuale di 10.000 persone non garantisce automaticamente il successo; serviranno sempre visione, impegno e una direzione chiara.
Cose che fatico seriamente a immaginare come “collettivizzate”, e che penso al contrario saranno ancora, forse ancor di più, centralizzate in pochi individui. Tra cui Zuckerberg. Niente da fare, Mark, non mi hai convinto: il rischio di un neo-feudalesimo digitale è ancora lí, tu sei un possibile feudatario e per evitare il peggio non serve entusiasmo, ma lucidità. Ne riparleremo.