A 5000 metri di profondità, dove regna il buio eterno e la pressione potrebbe schiacciare un essere umano in un istante, si sta giocando una partita decisiva per il futuro del pianeta. I noduli polimetallici, quelle “patate” nere ricche di cobalto e nichel che l’industria tecnologica brama, quelle rastrellate delle estrazioni sui fondali, sono al centro di una scoperta inquietante.
Scienziati da tutta Europa hanno appena confermato quello che molti sospettavano: una volta estratti, gli ecosistemi che li ospitano non torneranno mai più come prima. Forse non torneranno affatto.
Estrazione sui fondali, lo studio che cambia tutto
Il progetto DEEP REST, un ambizioso programma di ricerca europeo coordinato da Jozee Sarrazin dell’Istituto francese di scienze oceaniche (Ifremer), ha appena presentato risultati che dovrebbero far tremare i polsi a chiunque stia pianificando l’estrazione sui fondali. La ricerca, presentata durante l’incontro dell’Autorità Internazionale dei Fondali Marini a Kingston, in Giamaica, non lascia spazio a interpretazioni ottimistiche.
“Se rimuoviamo noduli dal fondale marino, non sappiamo cosa perdiamo: sappiamo solo che è perduto per sempre“, è una delle conclusioni più dirette dello studio. I ricercatori sconsigliano categoricamente di utilizzare il ripristino del fondale marino “come azione di gestione per gli habitat danneggiati”. In altre parole: una volta rotto, resta rotto.
Ma perché questa scoperta è così importante? Perché l’industria dell’estrazione sui fondali ha sempre venduto l’idea che i danni fossero temporanei, riparabili. Come se gli oceani profondi fossero un giardino che, dopo una potatura drastica, ricresce più rigoglioso di prima. La realtà, secondo DEEP REST, è ben diversa.
Tempi geologici contro fretta industriale
Matthias Haeckel del centro di ricerca tedesco GEOMAR ha presentato i risultati del progetto MiningImpact, e le sue parole sono un pugno nello stomaco per chiunque creda nelle promesse dell’industria: “Per farla breve, alla fine parliamo di tempi di recupero di migliaia di anni”. Migliaia di anni. Non decenni, non secoli.
I noduli polimetallici si formano nel corso di milioni di anni. Sono concrezioni minerali che crescono strato su strato, con una lentezza che fa sembrare veloce la deriva dei continenti. Aspirare questi noduli dal fondale significa distruggere habitat che hanno impiegato ere geologiche per svilupparsi.
L’estrazione sui fondali funziona come un aspirapolvere gigante. Macchine grandi quanto palazzi di tre piani si muovono sui fondali, risucchiando tutto quello che trovano: noduli, sedimenti, fauna. Quello che resta è un deserto di fango. La fauna che vive in queste aree, spugne, coralli molli, anemoni di mare, “esiste solo in queste zone perché ha bisogno del substrato duro del nodulo per attaccarsi”, spiega Haeckel.
E qui arriviamo al cuore del problema. Come vi avevo raccontato in questo articolo, gli esperimenti di estrazione condotti negli anni ’70 mostrano tracce ancora perfettamente visibili dopo 44 anni. Gli ecosistemi abissali non seguono i nostri tempi, seguono i tempi del pianeta.
Noduli artificiali e speranze infrante
Sabine Gollner, biologa del Royal Netherlands Institute for Sea Research, ha provato una strada diversa. Ha progettato noduli artificiali fatti di argilla abissale e li ha posizionati sui fondali a 4.500 metri di profondità. L’idea era semplice: se gli animali hanno bisogno di superfici dure per attaccarsi, forniamogliele artificialmente.
Ma anche qui, la realtà è più complessa delle speranze. “Quando si prendono in considerazione i lenti tassi di crescita negli abissi, i processi lenti, ci vorranno molti più anni per scoprire se il ripristino è efficace e in che misura”, ammette Gollner. I fondali marini non sono un ecosistema terrestre che si riprende in qualche stagione. Sono ambienti estremi dove ogni processo biologico rallenta fino a diventare quasi impercettibile.
Se il ripristino è possibile, richiederà molto tempo, e al momento non abbiamo i dati per poter dire se saranno 100 anni o 1000 anni
Questa incertezza temporale non è un dettaglio tecnico. È il nocciolo della questione. L’industria dell’estrazione sui fondali promette riparazioni in tempi “ragionevoli”, ma la scienza dice che potrebbero volerci più tempo di tutta la storia della civiltà umana.

La corsa verso l’estrazione sui fondali
La Clarion Clipperton Zone, una vastissima area del Pacifico tra Hawaii e Messico, ospita miliardi di tonnellate di noduli polimetallici. Cobalto, nichel, rame, manganese: tutti metalli essenziali per batterie, smartphone, auto elettriche. L’industria tecnologica li vuole, le aziende minerarie sanno come prenderli, i governi stanno scrivendo le regole.
Ma questo studio cambia i termini del dibattito. Non stiamo più parlando di un’attività mineraria con impatti ambientali “gestibili”. Stiamo parlando di una forma di distruzione permanente, forse irreversibile. Gli scienziati del DEEP REST sono chiari: i depositi di solfuri massivi, quelli che si trovano vicino alle bocche idrotermali, dovrebbero essere completamente off-limits.
“Se estraiamo solfuri massivi vicino a bocche attive, sappiamo cosa perdiamo, e dobbiamo impedire la perdita”, conclude lo studio. Queste bocche idrotermali ospitano una biodiversità unica e sorprendente, ecosistemi che potrebbero riscrivere la nostra comprensione dell’origine della vita.
La domanda finale è semplice: vale la pena rischiare danni permanenti agli ultimi ecosistemi inesplorati del pianeta per estrarre metalli che, forse, potremmo ottenere in altri modi? Lo studio DEEP REST suggerisce che la risposta dovrebbe essere no. Perché alcuni errori, una volta commessi, non si possono correggere.
Nemmeno in mille anni.