Il telefono squilla nel 2008. Dall’altra parte c’è il presidente dell’Uruguay. Chiede a un professore di fisica se vuole gestire tutta l’energia del paese. Lui esita. Non per paura di fallire, ma per paura di dover spiegare perché gli altri non ci provano. Oggi, quel professore (Ramón Méndez Galain) è diventato il volto del modello Uruguay, un caso di transizione energetica così efficace da sembrare quasi sospetto in un’epoca di promesse vuote e greenwashing.
“Si, ma poi fallirà, vedrete”
E invece il sistema uruguaiano non è crollato. Anzi. È il resto del mondo che continua a inciampare sulle stesse scuse: “È troppo costoso”, “La rete non regge”, “Non siamo pronti”.
Intanto, l’Uruguay dal 2013 produce il 98% della sua elettricità da fonti rinnovabili: idroelettrico, eolico, solare, biomasse. E nel 2024 ha raggiunto il 99,1%. Esporta surplus verso Argentina e Brasile, ha dimezzato i costi energetici e creato 50.000 posti di lavoro.
Eppure, nessuno lo imita. Forse perché il modello Uruguay non richiede una tecnologia segreta o costosa per ingrassare i soliti potentati dell’energia e della finanza, ma qualcosa di più raro: la coerenza.

Modello Uruguay: tre semplici regole
Galain non ha inventato nulla. Ha applicato tre principi:
1. Una strategia decennale condivisa da tutti i partiti — nessun cambio di governo ha cancellato il piano;
2. Un simulatore di rete che ha dimostrato come vento e sole, combinati con idroelettrico e biomasse, potessero garantire stabilità;
3. Regole di mercato riscritte per le rinnovabili, non per il gas.
Come conferma un’analisi pubblicata su Energy Policy (Renewable energy in Uruguay: A model for Latin America?), il successo uruguaiano nasce da una “transizione sistemica”, non da sussidi isolati o incentivi spot. Il paese ha modificato infrastrutture, normative e meccanismi di finanziamento, creando un ecosistema in cui il solare e l’eolico non erano “ospiti” ma protagonisti.
Oggi, la sua onlus Ivy lavora con Argentina, Colombia, Panama e Repubblica Dominicana per replicare questa logica. Con un obiettivo chiaro: dimostrare che il modello Uruguay non è un caso geografico, ma un metodo. Un approccio che ricorda da vicino gli sforzi di chi, anche in Italia, sta trasformando aree dismesse in laboratori di città del futuro (SmartCityLab a Milano), dove la sostenibilità non è un accessorio, ma l’architettura di base.
Paradosso: funziona meglio dove non c’è petrolio
Ironia amara: il paese che ha fatto la transizione più rapida è quello che non aveva nulla da perdere. Senza riserve fossili, l’Uruguay importava il 100% del suo gas e petrolio. Ogni crisi energetica era una crisi di sovranità. La transizione non era “verde”, era di sopravvivenza.
Un po’ come un collega educato ma distratto: aiuta, ma inciampa. Molti governi oggi parlano di rinnovabili mentre firmano nuovi contratti per il gas. Il modello Uruguay li mette in imbarazzo, non per moralismo, ma per semplicità: se non hai petrolio, non devi convincere le lobby. Devi solo fare.
Il modello Uruguay non è un miracolo, perché non crede nei miracoli
Galain non crede nei miracoli. Crede nei piani, nei dati, nella pazienza. E forse è proprio questa la lezione più scomoda: la transizione energetica non richiede eroi, ma burocrati onesti e politici capaci di guardare oltre la prossima elezione.

Il modello Uruguay ha già vinto. Non perché è perfetto, ma perché funziona. E in un mondo che continua a discutere se sia “possibile”, un paese di 3,4 milioni di abitanti ha spento il petrolio, esporta elettricità e dorme sonni tranquilli.
Scusate la brutalità: alla faccia nostra.