Ho aspettato una settimana per capire l’evoluzione di questa mossa, in un contesto nel quale tutte le iniziative di questa lunga e complessa guerra commerciale cambiano rapidamente, perché volevo evitare ragionamenti a caldo. Ora ho un quadro più preciso.
L’11 ottobre la Cina ha fatto una cosa che gli Stati Uniti credevano fosse una loro esclusiva: ha detto al resto del mondo cosa può vendere e a chi. Non dentro i propri confini. Ovunque. Le nuove regole di Pechino sulle terre rare funzionano come quelle americane sui chip: se un’azienda europea, giapponese o coreana vuole esportare certi minerali, anche lavorati fuori dalla Cina, deve chiedere il permesso a Pechino.
Un po’ come quando Washington ha bloccato Huawei tagliando fuori chiunque usasse tecnologia americana. Solo che questa volta i ruoli sono invertiti. Trump ha minacciato dazi al 100%, poi ha scritto su Truth Social: “Non preoccupatevi della Cina, andrà tutto bene”. I mercati sono crollati lo stesso. E da adesso in poi come andrà? Posso solo ipotizzare, ma non a casaccio.
La foreign direct product rule, ma al contrario
Nel 2020 Washington ha rispolverato una norma oscura chiamata foreign direct product rule per colpire Huawei. Il principio era semplice: qualsiasi azienda al mondo non può vendere un prodotto a Huawei se contiene componenti americani o è stato realizzato con tecnologie USA. E siccome gli Stati Uniti hanno un ruolo chiave nell’industria dei chip, la regola copriva praticamente tutto il settore tecnologico avanzato. Una mossa aggressiva che molti governi hanno dovuto subire, pur brontolando, perché dipendevano dalla tecnologia americana.
Ora Pechino ha preso quella stessa logica e l’ha applicata alle terre rare. Dal 1° dicembre 2025, chiunque voglia esportare questi minerali critici dovrà ottenere una licenza cinese, anche se il materiale viene lavorato in Europa, Giappone o Stati Uniti. La Cina controlla l’85% della raffinazione globale di terre rare e ha costruito un monopolio che va ben oltre l’estrazione: possiede la maggior parte dei brevetti per la lavorazione di questi minerali. È integrazione verticale portata all’estremo.

Quando il DEW Line trasformò la Terra in un faro cosmico
Il dominio cinese sulle terre rare non è casuale. È il risultato di decenni di pianificazione industriale iniziata negli anni ’80, quando Pechino ha capito che questi minerali sarebbero diventati strategici. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno smantellato la loro capacità produttiva negli anni ’90, quando l’estrazione in California è diventata troppo costosa e inquinante.
Nel 2010 la Cina ha già usato quest’arma contro il Giappone durante una disputa territoriale, tagliando le esportazioni e facendo impennare i prezzi da 9,46 a 66,96 dollari a tonnellata in due anni.
Quella crisi non ha insegnato molto all’Occidente. Ford e altri produttori di auto hanno dovuto fermare la produzione ad aprile 2025, quando Pechino ha introdotto le prime restrizioni limitate. Trump ha reagito aumentando i dazi al 145% sul made in China. La Cina ha risposto alzando i suoi dazi all’84% e poi, l’11 ottobre, ha annunciato il sistema di licenze globale. Il segretario al Tesoro Scott Bessent ha accusato Pechino di “danneggiare l’economia mondiale” ma la verità è che dopo questa ultima mossa, che alza l’asticella nella guerra commerciale, Washington si è trovata spiazzata.
Le terre rare non sono rare nel senso geologico: si trovano un po’ ovunque sulla crosta terrestre. Il problema è che estrarle e raffinarle è costoso, inquinante e richiede know-how specifico. La Cina ha investito miliardi per costruire questa capacità mentre l’Occidente delocalizzava. Ora Pechino detiene il 40% delle riserve mondiali, produce oltre il 60% degli ossidi e controlla l’85% della raffinazione. Stati Uniti ed Europa dipendono interamente dalla Cina per la loro domanda interna.
La guerra commerciale diventa guerra delle risorse
Il timing della mossa cinese non è casuale. Due settimane prima, il 29 settembre, gli Stati Uniti avevano esteso i controlli tecnologici alle sussidiarie di tutte le aziende nella “entity list”. Pechino ha interpretato questa mossa come la rottura, forse definitiva, della fragile tregua raggiunta dopo che Trump e Xi si erano parlati al telefono ad agosto. La risposta cinese è stata multipla: controlli sulle apparecchiature per batterie al litio, tasse portuali aggiuntive sulle navi americane, un’indagine antitrust su Qualcomm, e infine le restrizioni globali sulle terre rare.
Chris Miller, professore alla Tufts University e autore di Chip War, ha definito le implicazioni del sistema di licenze cinese “straordinariamente ampie”, dato che riguardano praticamente tutti i semiconduttori prodotti globalmente. Le aziende dovranno fornire a Pechino informazioni dettagliate sui loro processi produttivi e sulle loro catene di approvvigionamento. Un livello di trasparenza che fa tremare i governi occidentali, preoccupati che questi dati possano essere usati per scopi strategici o industriali.
Ma c’è un paradosso. Mentre la Cina ha speso miliardi per sviluppare la sua industria dei chip, gli Stati Uniti potrebbero impiegare anni per ricostruire una filiera delle terre rare. “Se la Cina riesce ad aggirare i controlli sui chip ma agli USA serve più tempo per sostituire le terre rare, sarà un grosso problema per Washington”, spiega Martin Chorzempa del Peterson Institute.
Chi perde di più quando due elefanti combattono
Un proverbio africano dice che quando due elefanti combattono, l’erba soffre. In questo caso, l’erba è il resto del mondo. L’Europa rischia (tanto per cambiare) di trovarsi schiacciata tra le due superpotenze. Il 98% della fornitura di terre rare dell’UE proviene dalla Cina. L’industria automobilistica europea, già in difficoltà per la transizione elettrica, potrebbe vedere rallentati i suoi piani se Pechino decidesse di stringere ulteriormente le maglie. I prodotti cinesi che non raggiungono più gli Stati Uniti a causa dei dazi stanno invadendo i mercati europei e del sudest asiatico, creando concorrenza sleale per le industrie locali.
Bessent ha annunciato che gli Stati Uniti cercheranno una risposta coordinata con europei, Australia, Canada e India. Ma costruire supply chain alternative richiede tempo, capitali e volontà politica. MP Materials sta lavorando al primo impianto di lavorazione sul suolo americano dopo il fallimento di Molycorp, con il supporto del Pentagono. L’australiana Lynas sta aprendo un impianto in Texas. Ma serviranno anni prima che queste strutture diventino operative su scala industriale.
Il dato più inquietante? Cina e Stati Uniti rappresentano insieme il 43% dell’economia globale secondo il Fondo Monetario Internazionale. Una guerra commerciale aperta tra queste due potenze non si limiterebbe a colpirle direttamente: sarebbe una tempesta economica capace di travolgere interi settori, economie emergenti e mercati sviluppati. Gli investimenti globali ne soffrirebbero, e diverse economie potrebbero finire in recessione.
La lezione che nessuno voleva imparare
Yeling Tan, professoressa alla Oxford University, osserva che le restrizioni cinesi potrebbero rivelarsi costose per Pechino stessa in termini di credibilità come partner commerciale affidabile. “Minaccia di minare la reputazione della Cina come nazione commerciale affidabile”, dice. Ma Xi Jinping ha capito che con Trump non bisogna mai porgere l’altra guancia. La posizione di Pechino è chiara: “Se volete combattere, combatteremo fino alla fine. Se volete negoziare, la nostra porta rimane aperta”.
Trump ha minacciato di cancellare l’incontro previsto con Xi per fine ottobre in Corea del Sud e di imporre dazi aggiuntivi al 100% dal 1° novembre. Dopo il crollo dei mercati, ha cercato di rassicurare: “Non abbiate paura della Cina”. Ma la verità è che Washington ha scoperto di essere vulnerabile esattamente come lo era Pechino quando dipendeva dalla tecnologia americana. La globalizzazione ha creato interdipendenze che funzionano in entrambe le direzioni.
La guerra commerciale non è più solo una questione di dazi e controdazi. È diventata una competizione per il controllo delle risorse strategiche che determineranno chi avrà il potere tecnologico ed economico nei prossimi decenni. E in questa partita, contrariamente a quanto molti pensavano, la Cina potrebbe avere più carte da giocare di quanto gli Stati Uniti fossero disposti ad ammettere.
Finché dura.