Nel 1950, durante una pausa pranzo a Los Alamos, Enrico Fermi lanciò nel vuoto una domanda che ancora oggi non ha risposta: “Dove sono tutti?” Se l’universo pullula di stelle e pianeti, se la matematica ci dice che dovremmo essere circondati da civiltà aliene, perché non abbiamo mai ricevuto nemmeno un messaggio? Settantacinque anni dopo, un astrofisico della NASA propone una soluzione al paradosso che porta il nome del fisico italiano. Robin Corbet lavora al Goddard Space Flight Center e la sua ipotesi è semplice quanto destabilizzante: dove sono gli alieni? Esistono, ma sono bloccati più o meno al nostro stesso livello tecnologico. Niente astronavi che viaggiano alla velocità della luce, niente megastrutture attorno alle stelle. Solo civiltà che hanno raggiunto un plateau e poi hanno smesso di cercare.
Dove sono gli alieni? La “banalità radicale” come soluzione
Il paper di Corbet, pubblicato su arXiv nel settembre 2025, si intitola “Un universo meno terrificante?” e introduce il concetto di “radical mundanity”, la banalità radicale. L’idea è che la Via Lattea contenga un numero modesto di civiltà extraterrestri, nessuna delle quali ha raggiunto livelli tecnologici sufficienti per compiere ingegneria su larga scala o per lasciare tracce rilevabili a distanza.
“È un po’ come avere un iPhone 42 invece di un iPhone 17”, spiega Corbet al Guardian. “Sono più avanzati, ma non molto più avanzati. Non hanno viaggi più veloci della luce, non hanno macchine basate su energia oscura o buchi neri. Non stanno sfruttando nuove leggi della fisica”.
Secondo questa ipotesi, le civiltà aliene attraversano lo stesso percorso evolutivo che stiamo percorrendo noi. Sviluppano tecnologie sempre più sofisticate, mandano sonde robotiche a esplorare i sistemi vicini, forse ricevono qualche dato interessante. E poi si fermano. Non per catastrofi o autodistruzione, ma semplicemente perché esiste una sorta di limite naturale allo sviluppo tecnologico. La domanda “dove sono gli alieni” trova risposta in un plateau energetico ed evolutivo che nessuna civiltà riesce a superare.

Il paradosso di Fermi e l’equazione di Drake
Il paradosso di Fermi nasce da un calcolo apparentemente semplice. L’equazione di Drake, formulata nel 1961, stima il numero di civiltà comunicanti nella Via Lattea moltiplicando vari fattori: tasso di formazione stellare, frazione di stelle con pianeti, numero di pianeti abitabili, probabilità che si sviluppi vita intelligente e così via. Anche con stime conservative, il risultato suggerisce che dovrebbero esistere centinaia, forse migliaia di civiltà capaci di comunicare via radio. Eppure il progetto SETI, attivo da oltre sessant’anni, non ha mai captato un segnale inequivocabile.
Le spiegazioni proposte nel tempo sono state varie. Forse siamo soli nell’universo. Forse le civiltà si autodistruggono prima di raggiungere la capacità di comunicare interstellare. Forse siamo in uno “zoo galattico” e veniamo osservati senza essere contattati. Forse gli alieni sono così avanzati da essere diventati irriconoscibili. Ma tutte queste ipotesi richiedono circostanze estreme. Corbet propone invece la soluzione più banale: dove sono gli alieni? Esistono, ma sono tecnologicamente limitati quanto noi.
Dove sono gli alieni? Forse hanno perso interesse
L’ipotesi della banalità radicale implica che nessuna civiltà nella galassia colonizza una frazione significativa dello spazio, nemmeno con sonde robotiche. Nessuna costruisce fari radio ad alta potenza che durano millenni. Dopo aver esplorato i sistemi stellari vicini e aver ricevuto dati poco interessanti, queste civiltà perdono gradualmente l’interesse per l’esplorazione cosmica. Come scrive Corbet nel suo paper: “Se nella galassia esistono numerose civiltà, la Terra appare poco interessante tra innumerevoli mondi simili”.
La teoria ha ricevuto reazioni contrastanti dalla comunità scientifica. Michael Garrett, direttore del Jodrell Bank Centre for Astrophysics, ha apprezzato la “nuova prospettiva” ma ha sollevato dubbi sulle assunzioni di base. “Proietta un’apatia molto umana sul resto del cosmo”, ha commentato. “Faccio fatica a credere che tutta la vita intelligente sia così uniformemente noiosa”.
Forse, però, è proprio questo il punto. Forse la galassia non è popolata da imperi stellari o civiltà trascendenti. Forse è piena di società come la nostra: curiose ma limitate, interessate ma caute, avanzate ma non abbastanza. Come ci raccontavamo qualche mese fa, la Terra trasmette involontariamente la propria firma tecnologica attraverso i radar civili e militari da oltre settant’anni. Se esistono civiltà aliene con radiotelescopi simili ai nostri nel raggio di 200 anni luce, potrebbero aver già rilevato i nostri segnali. E forse hanno deciso che non siamo abbastanza interessanti.

Un universo meno terrificante
Corbet riprende una celebre citazione attribuita ad Arthur C. Clarke: “Esistono due possibilità: o siamo soli nell’universo o non lo siamo. Entrambe sono egualmente terrificanti”. Il principio della banalità radicale propone una terza via, meno spaventosa. Non siamo soli, ma nemmeno siamo destinati a incontrare civiltà superintelligenti o a diventarlo noi stessi. Viviamo in un universo moderatamente popolato da società moderatamente avanzate, tutte bloccate più o meno allo stesso livello tecnologico.
Questa prospettiva esclude scenari apocalittici come l’invasione da parte di una civiltà malevola, ma esclude anche il sogno di unirci a una comunità galattica. Potremmo un giorno stabilire un contatto, suggerisce Corbet, ma solo come “corrispondenti interstellari”, non come amici che si visitano. E quando accadrà, seguiremo il protocollo dettagliato sviluppato dalla comunità scientifica. Ma l’evento, per quanto epocale, “potrebbe lasciarci leggermente delusi”.
Forse la galassia è più noiosa di quanto immaginiamo. Forse la risposta alla domanda “dove sono gli alieni” è semplicemente: qui, bloccati sui loro pianeti come noi, a guardare le stelle senza troppa voglia (o forza) di andarci davvero.