Un razzo parte da Cape Canaveral. Il rombo è spettacolare, la scia bianca attraversa il cielo azzurro: questa volta sessanta satelliti Starlink raggiungono l’orbita. Missione riuscita. Ma mentre il booster atterra sulla piattaforma oceanica e i tecnici festeggiano, qualcosa resta sospeso. Nella stratosfera, tra i 15 e i 50 chilometri di altezza, particelle di cloro e fuliggine iniziano a fluttuare. Non cadono con la pioggia, non vengono spazzate via dal vento. Restano. Per settimane, a volte mesi. E mentre circolano attorno al pianeta, spezzano molecole di ozono. Una per una. Succede a ogni lancio. Nel 2019 erano 102 lanci spaziali l’anno. Nel 2024 sono diventati 258. Entro il 2030 potrebbero essere 2.040.
Lo strato di ozono, che dopo quarant’anni di cure intensive stava finalmente guarendo, può iniziare di nuovo ad assottigliarsi.
Lanci spaziali, il problema che nessuno regola
La ricerca arriva da un team internazionale guidato da Laura Revell dell’Università di Canterbury e Sandro Vattioni dell’ETH di Zurigo. Lo studio pubblicato su NPJ Climate and Atmospheric Science ha simulato cosa succederà entro il 2030 se la crescita dei lanci spaziali continua così. Lo scenario ipotizzato prevede 2.040 decolli annuali: otto volte quelli del 2024. Il risultato? Lo spessore medio globale dell’ozono diminuirebbe dello 0,3%, con riduzioni stagionali fino al 4% sull’Antartide, dove il buco si apre ancora ogni primavera.
Questi numeri sembrano piccoli. Ma lo strato di ozono è ancora convalescente. Attualmente è circa il 2% più sottile rispetto ai livelli preindustriali. Un recupero completo era previsto per il 2066. Con le emissioni non regolamentate dei razzi, quel traguardo potrebbe slittare di anni, forse decenni. Vattioni lo spiega senza giri di parole:
“Nell’atmosfera superiore mancano i meccanismi naturali di rimozione che normalmente puliscono l’aria a quote più basse. Gli inquinanti restano fino a 100 volte più a lungo rispetto alle emissioni terrestri”.
Cloro e fuliggine, i nemici invisibili
I colpevoli principali sono due: il cloro gassoso e le particelle di fuliggine. Il cloro viene dai propellenti solidi, quelli che contengono perclorato di ammonio. Durante la combustione rilasciano cloro, che nella stratosfera agisce da catalizzatore: spezza le molecole di ozono senza consumarsi, continuando a distruggerne altre. La fuliggine, prodotta dalla maggior parte dei motori, riscalda l’atmosfera media accelerando le reazioni chimiche che degradano ulteriormente lo scudo protettivo.
La soluzione tecnica esiste già: i combustibili criogenici come ossigeno liquido e idrogeno hanno un impatto trascurabile sull’ozono. Il problema? Solo il 6% dei lanci attuali usa questa tecnologia. Gestire criogeni è complesso, costoso. L’industria spaziale preferisce i propellenti solidi, più semplici da stoccare e utilizzare.
Il rientro dei satelliti peggiora tutto
Lo studio di Revell e Vattioni ha considerato solo le emissioni durante i lanci spaziali. Ma c’è un secondo problema, ancora più difficile da quantificare: il rientro. I satelliti in orbita bassa hanno vita breve. A 250-600 chilometri dalla Terra subiscono ancora l’attrito dell’atmosfera residua, che li rallenta fino a farli precipitare. Quando bruciano durante il rientro, rilasciano ossidi di azoto e particelle metalliche. Gli ossidi di azoto distruggono cataliticamente l’ozono. Le particelle metalliche contribuiscono alla formazione di nubi stratosferiche polari, che intensificano la perdita.
Le megacostellazioni come Starlink richiedono sostituzioni continue. Ogni 5-10 anni i dispositivi vanno cambiati. Più lanci, più satelliti, più rientri. Un ciclo che si autoalimenta. “Con l’aumento delle costellazioni satellitari, le emissioni da rientro diventeranno più frequenti e l’impatto totale sullo strato di ozono sarà probabilmente ancora maggiore rispetto alle stime attuali”, ha dichiarato Vattioni.

Montreal aveva funzionato
Nel 1987 il mondo si accordò per salvare l’ozono. Il Protocollo di Montreal bandì i clorofluorocarburi, quelle sostanze chimiche usate nei frigoriferi e nelle bombolette spray che stavano aprendo buchi nella stratosfera. Le emissioni di CFC crollarono del 99%. Il buco antartico iniziò a rimpicciolirsi. Funzionò perché tutti i paesi si misero d’accordo, stabilirono regole chiare, controllarono le industrie.
Stavolta è diverso. I lanci spaziali non hanno regole globali. Ogni paese lancia come vuole, quando vuole. SpaceX decolla ogni due settimane. Amazon prepara la costellazione Kuiper. La Cina risponde con Guowang. Nessuno monitora le emissioni in modo sistematico. Nessuno impone propellenti meno dannosi. La corsa spaziale è diventata business prima che qualcuno pensasse alle conseguenze atmosferiche.
Lanci spaziali: che si fa?
Gli autori dello studio propongono soluzioni: monitorare le emissioni, ridurre i carburanti che producono cloro e fuliggine, promuovere sistemi di propulsione alternativi, attuare normative internazionali. Tutte cose fattibili. Ma serve lo stesso tipo di coordinamento globale che rese possibile Montreal. “Il Protocollo ha dimostrato che anche le minacce ambientali su scala planetaria possono essere affrontate attraverso la cooperazione globale”, scrivono Revell e Vattioni.
“Entrando in una nuova era per l’attività spaziale, sarà necessario lo stesso tipo di lungimiranza”.
Lo strato di ozono è uno degli scudi naturali più vitali della Terra. Ci ha protetto per milioni di anni. Quarant’anni fa abbiamo capito che lo stavamo distruggendo e abbiamo agito. Adesso stiamo ricominciando, con una tecnologia diversa ma lo stesso risultato.
La differenza è che stavolta sappiamo già cosa succederà. E continuiamo comunque.