Lisette Lopez-Rose pensava che dopo il parto sarebbe arrivata la felicità. Invece sono arrivati gli attacchi di panico. Un peso sul petto che non se ne andava, la paura che qualcosa di brutto potesse succedere al bambino. Per mesi ha tenuto tutto dentro, terrorizzata che qualcuno potesse portarle via il figlio. Poi, sei mesi dopo, ha trovato il coraggio di parlarne con il medico. Due mesi di farmaci e finalmente la luce in fondo al tunnel. La sua storia non è un’eccezione: una donna su otto attraversa la depressione post partum, la complicanza più comune del parto. Ma oggi qualcosa sta cambiando.
Un semplice prelievo di sangue durante la gravidanza può prevedere chi svilupperà questa condizione con un’accuratezza superiore all’80%. Non serve più aspettare che i sintomi esplodano.
Due molecole che raccontano il futuro
Il neuroscienziato italiano Graziano Pinna dell’Università dell’Illinois a Chicago ha analizzato 136 donne durante il secondo e terzo trimestre di gravidanza. Trentatré di loro hanno sviluppato sintomi depressivi dopo il parto. Lo studio pubblicato su Neuropsychopharmacology ha identificato un pattern chiaro nel sangue delle future madri a rischio.
Due steroidi neuroattivi derivati dal progesterone fanno la differenza: il pregnanolone e l’isoallopregnanolone. Il primo agisce sul recettore GABA-A per calmare il cervello e ridurre lo stress. Il secondo blocca questo effetto protettivo e aumenta i sintomi depressivi. Le donne che hanno sviluppato depressione post partum mostravano durante il terzo trimestre un rapporto pregnanolone/progesterone più basso e un rapporto isoallopregnanolone/pregnanolone più alto rispetto alle altre. Un prelievo di sangue standard, niente di invasivo. Ma la capacità predittiva supera l’80%.
Depressione post partum, perché alcune donne si ed altre no
Dopo il parto, i livelli di estrogeni e progesterone crollano improvvisamente. Questa caduta ormonale innesca la depressione post partum in alcune donne ma non in altre. La domanda che ha guidato la ricerca di Pinna per 25 anni è stata proprio questa: perché lo stesso cambiamento ormonale colpisce in modo così diverso?
La risposta sta nella sensibilità individuale al crollo ormonale. Come spiega lo stesso Pinna:
“La scoperta di questi biomarcatori rappresenta un passo in avanti per capire non solo le basi biologiche della depressione post partum, ma soprattutto per sviluppare mezzi di prevenzione e nuove strategie terapeutiche”.

Il test non si limita a identificare chi è a rischio. Apre la strada a interventi preventivi. Le donne identificate come vulnerabili potrebbero iniziare trattamenti specifici subito dopo il parto, o addirittura prima che i sintomi compaiano.
La depressione post partum colpisce il 10-15% delle donne che partoriscono nel mondo occidentale. In alcuni casi può diventare grave e mettere in pericolo sia la madre che il bambino.
Il primo farmaco specifico arriva in Europa
La capacità di prevedere chi svilupperà depressione post partum arriva insieme a un’altra svolta: il primo farmaco specifico per questa condizione. A settembre 2025 la Commissione Europea ha autorizzato lo zuranolone (nome commerciale Zurzuvae), sviluppato da Biogen e Sage Therapeutics.
Si tratta di un neurosteroide che agisce come modulatore positivo dei recettori GABA-A. A differenza degli antidepressivi tradizionali che impiegano settimane per funzionare, lo zuranolone mostra miglioramenti significativi già dal terzo giorno di somministrazione. La terapia dura solo 14 giorni: una compressa al giorno, da assumere la sera. I benefici si mantengono fino al giorno 45.
Prima dello zuranolone esisteva il brexanolone, approvato dalla FDA americana nel 2019. Ma richiedeva un’infusione endovenosa continua di 60 ore in ospedale, con costi proibitivi (34.000 dollari a trattamento) e il rischio di perdita improvvisa di coscienza. Lo zuranolone ha risolto questi problemi: si prende a casa, costa meno, nessun paziente negli studi clinici ha perso conoscenza.
Oltre i test: la ricerca continua
Il test basato sui biomarcatori di Pinna non è l’unico approccio in sviluppo. Un altro filone di ricerca si concentra sulla metilazione di due geni: TTC9B e HP1BP3. Questi geni sono sensibili agli estrogeni e sembrano coinvolti anche in altre forme di depressione legate ai cambiamenti ormonali, come la sindrome premestruale e la depressione perimenopausale.
Il test basato sulla metilazione genetica, che sarà commercializzato con il nome myLuma, raggiunge un’accuratezza superiore all’85%. A partire da gennaio 2026 sarà disponibile negli Stati Uniti (Florida, Texas e California). Non richiede ancora l’approvazione della FDA perché rientra nella categoria dei test diagnostici che i medici possono utilizzare per decisioni cliniche.

Depressione post partum, perché questo cambia tutto
Lauren M. Osborne, coautrice dello studio e psichiatra riproduttiva al Weill Cornell Medicine, sintetizza l’impatto della scoperta: “Se riuscissimo a replicare questi risultati su un campione più ampio e diversificato, questo potrebbe diventare un test clinico standard per prevedere lo sviluppo della malattia”. Le donne identificate come ad alto rischio potrebbero assumere zuranolone in modo preventivo, anche se questa applicazione deve ancora essere testata.
Come abbiamo raccontato in passato, la depressione è un disturbo complesso che richiede approcci multipli. Ma avere strumenti predittivi e farmaci specifici rappresenta un cambio di paradigma. Non serve più aspettare che una donna crolli per intervenire. Il test del sangue porta la psichiatria al livello della biologia: una condizione medica con biomarcatori misurabili, non “qualcosa che sta solo nella testa”.
Lisette Lopez-Rose oggi lavora per Postpartum Support International, coordinando gruppi di supporto online per altre madri. Sua figlia ha quattro anni e stanno bene entrambe. Ma un test del sangue, dice, le avrebbe risparmiato mesi di sofferenza silenziosa.
Invece di sentirsi sola e terrorizzata, avrebbe saputo cosa aspettarsi. Avrebbe avuto un nome per quello che stava vivendo. E soprattutto, avrebbe saputo che non era colpa sua.