I capodogli parlano. O almeno, producono suoni che somigliano in modo inquietante alle nostre vocali. Uno studio di Berkeley pubblicato su Open Mind ha identificato pattern spettrali nei click dei capodogli che corrispondono alle vocali “a” e “i”, più diversi dittonghi.
Non è una metafora: quando acceleri le registrazioni subacquee, eliminando i silenzi, senti qualcosa di strutturato, controllato, quasi umano. Gašper Beguš, che guida la ricerca linguistica del Project CETI, lo dice chiaramente: quello che sembrava un codice morse “alieno” è in realtà “molto più simile al parlato umano di quanto pensassimo”. Mille e duecento registrazioni analizzate tra il 2005 e il 2018 raccontano una storia diversa da quella che ci aspettavamo.
Capodogli, la scoperta che nessuno aveva sentito
Il trucco è stato cambiare la percezione del tempo. Gli umani producono vocali attraverso le corde vocali, che vibrano velocemente. I capodogli usano le labbra foniche, strutture molto più lente. Per decenni i biologi marini hanno analizzato i “coda” (sequenze di click) contando gli impulsi e misurando gli intervalli. Come riportato dall’Università di Berkeley, Beguš ha fatto qualcosa di controintuitivo: ha rimosso il tempo dall’equazione. Ha accelerato le registrazioni fino a farle corrispondere al ritmo del parlato umano. E lì, nascosti nei silenzi, sono apparsi i pattern.
Due categorie distinte: a-coda e i-coda. Vocali discrete che i capodogli si scambiano in conversazioni strutturate. Ma non solo. Lo studio identifica anche pattern dittonghici: transizioni di frequenza che salgono, scendono, o fanno entrambe le cose. Un po’ come quando diciamo “uomo” o “guai”. Modulazioni che suggeriscono un controllo attivo, nessuna casualità acustica.
Un alfabeto fonetico sommerso
Il Project CETI aveva già identificato 156 pattern di click nel 2024, costruendo quello che hanno chiamato “alfabeto fonetico dei capodogli”. Ora la scoperta si espande: non solo ritmo, ma anche frequenza. Come spiega National Geographic, l’ispirazione è arrivata da una conferenza sugli elefanti. Un ricercatore ha menzionato che gli elefanti rispondono ai loro nomi con minuti di ritardo. Beguš si è chiesto: e se anche i capodogli percepissero il tempo in modo diverso dal nostro?
Le proprietà spettrali scoperte sono così simili alle vocali umane che possono essere trascritte con le nostre lettere. La somiglianza non è solo strutturale: anche il meccanismo di produzione ricorda quello umano, con una sorgente sonora e un filtro acustico che modula le frequenze. La differenza? Noi usiamo le corde vocali, loro le labbra foniche. Stessa fisica, anatomia diversa.
Complessità inaspettata
“È impressionante quanto sia strutturato il sistema”, ha dichiarato Beguš a SFGATE.
“Non ho mai visto nulla di simile in altri animali. Stiamo mostrando al mondo che c’è più di quanto sembri nei capodogli”.
Il team ha usato modelli di machine learning per identificare i pattern, analizzando registrazioni raccolte da unità sociali di capodogli al largo di Dominica. Ogni clan ha il proprio dialetto, i piccoli balbettano per un paio d’anni prima di imparare a cliccare in modo significativo. Come già osservato con i delfini, anche i capodogli sembrano avere una cultura comunicativa che si tramanda.
Ma c’è chi solleva dubbi. Denise Herzing, esperta di comunicazione dei delfini, ha espresso preoccupazione sull’uso del termine “vocale”. Teme che possa far pensare a qualcosa di troppo simile al linguaggio umano, creando aspettative eccessive.
Il rischio, secondo lei, è danneggiare il campo scientifico con promesse non mantenibili. Beguš risponde che la ricerca mostra solo quanto ancora dobbiamo imparare. Non stanno dicendo che i capodogli parlano come noi, stanno dicendo che il loro sistema comunicativo è molto più complesso di quanto immaginassimo.
Cosa significa, davvero, il linguaggio dei capodogli
Le implicazioni sono tante. Se i capodogli hanno la capacità di linguaggio, quali diritti legali dovrebbero avere? Beguš e il suo team stanno riflettendo su queste domande. La scoperta di strutture simili a quelle umane in una specie così lontana da noi solleva questioni etiche che la biologia marina tradizionale non aveva mai dovuto affrontare. Un po’ come quando ci siamo resi conto che gli scimpanzé usano strumenti: cambia il modo in cui guardiamo sia loro che noi stessi.
Beguš è particolarmente interessato a capire come i sistemi comunicativi variano tra regioni diverse e come i piccoli imparano a “parlare”. Ma soprattutto vuole decifrare il significato. “Una finestra sui pensieri e sulle vite delle balene”, la chiama. Come riportato nel comunicato ufficiale, il Project CETI ha passato cinque anni a documentare la vita di centinaia di capodogli usando droni, boe, tag acustici e microfoni a ventosa. L’obiettivo dichiarato è tradurre la comunicazione dei capodogli. Non interpretarla: proprio tradurla.
Abbiamo ascoltato questi animali per decenni, registrando migliaia di ore di click subacquei. E solo ora, accelerando le registrazioni, abbiamo capito che forse non stavamo ascoltando nel modo giusto. Quante altre specie stanno “parlando” a frequenze o velocità che non riconosciamo?