In un laboratorio di Londra, un punto di luce lampeggia. Un’ape si ferma, osserva, poi sceglie il cerchio che brilla più in fretta. Nessun suono, nessuna parola. Solo una sequenza di flash che, per lei, diventa un linguaggio. È così che un gruppo di ricercatori della Queen Mary University of London ha scoperto che le api possono distinguere la durata di una luce, leggendo un piccolo codice Morse. In quel cervello minuscolo, poco più grande di un seme di sesamo, c’è l’eco di qualcosa che somiglia alla logica.
Il risultato, pubblicato sulla rivista Biology Letters, non è un semplice esperimento comportamentale. È una finestra su come funziona il cervello delle api, un sistema di meno di un milione di neuroni capace però di risolvere compiti che richiedono tempo, memoria e associazione.
L’esperimento che non doveva riuscire
Alex Davidson, dottorando del Dipartimento di Scienze Biologiche e Comportamentali, ha guidato il test con un’idea semplice: capire se le api potevano imparare a distinguere due lampi di luce, uno rapido e uno lento.
Nel primo scenario, sotto il cerchio che lampeggiava più in fretta c’era una goccia di zucchero. Sotto l’altro, una soluzione amara di chinino. Dopo poche prove, le api hanno capito. Ma la sorpresa è arrivata dopo: quando il team ha rimosso sia zucchero sia chinino, oltre l’80 % delle api ha continuato a scegliere la luce giusta.
«Dal punto di vista evolutivo», spiega Davidson, «non avrebbero dovuto possedere questa capacità. Non incontrano luci lampeggianti in natura». Eppure ci sono riuscite.
Il comportamento osservato suggerisce una forma di apprendimento basata sul tempo: una cognizione che, negli insetti, finora era considerata quasi impossibile. Il cervello delle api può percepire la durata di una luce (o di altro, a questo punto) e usarla come codice.
Il cervello delle api: lavorare con l’essenziale
Un cervello umano contiene circa 86 miliardi di neuroni. Un’ape ne ha meno di un milione, ma li usa con un’efficienza che fa invidia all’ingegneria. Secondo la psicologa Elisabetta Versace, coautrice dello studio, «questo è un esempio di soluzione complessa ottenuta con un substrato neurale minimo». In altre parole, un piccolo cervello che trova scorciatoie eleganti.
La stessa logica affiora anche in ricerche parallele pubblicate su PNAS e Journal of Experimental Biology, dove si mostra come le api possano mantenere una coerenza individuale nei processi di apprendimento e memoria. Alcuni studi ipotizzano addirittura che i mini sistemi nervosi delle api possano ispirare reti neurali artificiali più efficienti: meno risorse, più intelligenza emergente.
Un po’ come osservare un computer grande quanto una lenticchia capace di elaborare segnali e decisioni in tempo reale.
Quando la biologia insegna all’IA
C’è un paradosso che attraversa l’intera ricerca: più riduci il numero dei neuroni, più chiaro diventa come ragiona la mente.
Le api, per sopravvivere, devono calcolare distanze, orientarsi nel vento, ricordare fiori e colori. Lo fanno ogni giorno senza errori apparenti. Il loro cervello, modellato da milioni di anni di selezione naturale, è una macchina di efficienza matematica.
È per questo che molti laboratori di robotica studiano gli schemi decisionali degli insetti per sviluppare intelligenze artificiali bio-ispirate. Il Bioengineer Institute ha definito questi risultati
“una pietra miliare per comprendere la cognizione invertebrata e la sua applicazione all’apprendimento automatico”.
Nel linguaggio delle reti neurali, il cervello delle api diventa un modello di “efficienza cognitiva”. Non ha bisogno di memoria infinita: gli basta ricordare ciò che serve, per il tempo necessario. Come notano i ricercatori nel paper, questa capacità di elaborare la durata dei segnali luminosi è la base primitiva del calcolo temporale, uno dei processi chiave anche nei sistemi di AI moderni, dai chatbot alle auto autonome.
Il lato umano del mistero
C’è però un altro aspetto. Se un’ape può riconoscere il ritmo del mondo, cosa dice questo di noi? Probabilmente il cervello delle api non “pensa” nell’accezione umana del termine, ma elabora. Non sogna, ma sceglie. Eppure, osservandolo, gli scienziati vedono riflesso un principio familiare: l’adattamento attraverso la semplicità.
Forse la coscienza, quella che cerchiamo di replicare nei computer, non nasce dalla complessità ma dall’ordine. Forse basta un piccolo circuito che funziona bene per dare forma a qualcosa che chiamiamo intelligenza.
In fondo, anche noi impariamo così: per associazioni, segnali, premi e errori. Cambiano le dimensioni, non la logica.
Come scrive Versace, «questa sorprendente abilità di codificare e processare la durata potrebbe essere una proprietà intrinseca dei neuroni stessi». Il che lascia aperta una domanda più grande: se l’intelligenza è una conseguenza della struttura, quante forme di mente ci sono, silenziose, sotto le nostre finestre?
Il cervello delle api, in sintesi
Il cervello delle api non parla, ma comunica. Non calcola come un processore, ma orchestra gesti che diventano linguaggio.
Ogni luce che lampeggia in quel piccolo laboratorio di Londra ricorda che la linea tra istinto e intelligenza è più sfumata di quanto pensiamo.
Come vi scrivevo in un precedente approfondimento, “le api rappresentano il miglior esempio di intelligenza distribuita che la natura abbia inventato”. Forse la natura, con le sue api operose e le sue sinapsi invisibili, sta già facendo ciò che l’uomo insegue da decenni: capire come nasce un pensiero.
E lo fa in silenzio, con un battito d’ali.