La ragazza in pericolo non urla, non scappa, non cerca il telefono nella borsa: si tocca semplicemente il lobo dell’orecchio. Un gesto banale, quasi un tic nervoso che nessuno noterebbe in una situazione di tensione, è invece un innesco. Mentre l’aggressore crede di avere il controllo, una minuscola fotocamera nascosta nell’orecchino ha già scattato, il GPS ha agganciato la posizione e un messaggio di aiuto è partito verso chi di dovere.
Bohlale Mphahlele ha immaginato questa scena a 16 anni, non in un film, ma nella sua stanza in Sudafrica, stanca di leggere statistiche che sembrano bollettini di guerra.
Quando la paura aguzza l’ingegno (e la tecnologia)
Il dispositivo si chiama Alerting Earpiece e fa esattamente quello che il nome suggerisce, ma con una discrezione impeccabile. L’idea è nata nel 2020, in pieno lockdown, quando la violenza domestica e le aggressioni stavano registrando picchi preoccupanti in tutto il mondo. Bohlale, studentessa della provincia di Limpopo, si è chiesta: “Ha senso dover sbloccare uno smartphone mentre qualcuno ti sta minacciando?”. Spoiler: no.
La risposta è stata bypassare completamente l’interfaccia utente tradizionale. Niente app da aprire, niente codici. Solo un piccolo pulsante fisico integrato in un oggetto che si indossa già. Un po’ come avere un anello smart o un altro wearable, ma con una missione decisamente meno ludica del contare i passi.
Orecchini anti aggressione: foto, GPS e zero equivoci
Il funzionamento è di una semplicità disarmante. Una volta attivato il meccanismo, l’orecchino scatta una foto dell’aggressore. Non una foto artistica, s’intende, ma sufficiente per l’identificazione. Contemporaneamente, invia le coordinate GPS in tempo reale ai contatti di emergenza preimpostati. È la concretizzazione di quello che molti studi, come il recente “IoT Based Automatic Women’s Safety Device for Enhanced Personal Security” (qui un riferimento accademico sul tema), auspicano da anni: la tecnologia deve essere passiva per chi la usa, ma attiva nel proteggere.
La sfida tecnica non è inviare un segnale, è farlo stare in un oggetto che pesa pochi grammi e che non devi ricaricare ogni tre ore. Bohlale ha vinto una medaglia all’Eskom Expo for Young Scientists proprio per questo: ha trasformato un problema sociale complesso in una specifica ingegneristica gestibile.
I numeri che fanno male – In Europa, nel 2023, circa 50 milioni di donne tra i 18 e i 74 anni, ovvero il 31%, hanno subito violenza fisica (inclusa la minaccia) o sessuale nel corso della loro vita adulta, secondo il sondaggio europeo sulla violenza di genere.
In Sudafrica la situazione è endemica. Dispositivi come questo non risolvono la causa, ma offrono una via di uscita (o almeno una prova) quando la prevenzione fallisce.
Il paradosso della sicurezza “gioiello”
C’è qualcosa di profondamente ironico, e forse un po’ triste, nel dover nascondere la propria sicurezza dietro un accessorio di vanità. Siamo arrivati al punto in cui un orecchino non serve più (solo) per farsi belle, ma per restare vive. Bohlale oggi non è più solo una studentessa con un’idea: gestisce la sua azienda e studia IT per perfezionare il dispositivo. Sta lavorando per rendere l’hardware ancora più invisibile.
Funzionerà su larga scala? Difficile dirlo. La produzione di hardware è una bestia difficile, piena di costi imprevisti e logistica da incubo. Ma il segnale è forte: la “Gen Z” non aspetta che siano le istituzioni a creare protocolli di sicurezza. Se li costruisce da sola, saldando circuiti nel garage di casa.
Alla fine, l’Alerting Earpiece è un oggetto che speri di comprare per non usarlo mai. Un po’ come l’assicurazione sulla vita o l’airbag. Resta lì, appeso al lobo, luccica, fa la sua figura. E intanto guarda il mondo con un occhio elettronico che non dorme mai. Meglio averlo e sentirsi paranoici, che averne bisogno e non averlo.