A Tokyo, nell’atelier di una studentessa di moda, sul tavolo c’è un indumento che sembra una giacca senza maniche, rigida, con fibbie ovunque. Yoon Myat Su Lin lo prende, slaccia tre ganci, tira, e la giacca si apre come un origami tridimensionale: in trenta secondi diventa una tenda triangolare. Le maniche? Diventano zaini. Stanno lì, attaccate alle braccia. Ora sono sacche portaoggetti con tanto di spallacci. L’abbigliamento emergenza non è più solo un giubbotto arancione con scritto “118”. È questo. Lo ha chiamato Shelter Wear. Un rifugio indossabile che funziona perché non devi portartelo dietro: ce l’hai già addosso.
L’idea parte da un ricordo preciso. Myanmar, marzo 2025, terremoto. Case che cadono, gente che corre, zero ripari. La ragazza si è detta: se l’unica cosa che resta addosso sono i vestiti, perché non farli diventare quello che ti serve?
Abbigliamento di emergenza: come funziona
Shelter Wear è fatto in ripstop nylon, lo stesso tessuto che usano per zaini da trekking e paracadute. Quando lo indossi sembra un gilet tecnico, stile urban techwear. Collo alto, pannelli rigidi, fibbie metalliche che paiono solo decorative. Invece no: ogni elemento ha una funzione. Le maniche si staccano tramite zip e diventano zaini portaoggetti. La parte centrale si srotola e, collegando i pannelli con altre zip, formi la struttura della tenda. Inserisci i pali (che stanno ripiegati nelle tasche laterali), fissi i picchetti e il tuo abito diventa la tua casa per un po’.
Il design sostenibile qui non è una scelta estetica. È necessità. Un solo indumento sostituisce giacca, zaino e tenda. Meno materiali, meno peso, meno cose da trasportare quando devi scappare in fretta. L’abbigliamento emergenza tradizionale ti chiede di avere sempre con te un kit. Questo È il kit.
Una volta aperta, la tenda ha una forma triangolare abbastanza alta da permettere di stare seduti. I pannelli esterni riflettono la luce (utile per essere visti dai soccorsi) e bloccano vento e pioggia.
Peso totale del sistema: circa 3 kg. Un pochino pesante per un capo normale, molto leggero se pensi che dentro c’è anche il tuo rifugio temporaneo.
Dal terremoto ai premi
Yoon Myat Su Lin studia moda a Tokyo, alla Esmod. Il progetto Shelter Wear nasce per i YKK Fastening Awards, una competizione dedicata a sistemi di chiusura (zip, bottoni, fibbie). Ha vinto lo YKK Special Award, che premia chi usa i fermagli in modi non convenzionali. E qua di convenzionale, lo state vedendo anche nelle foto, c’è ben poco.
L’ispirazione principale? Aojie Yang, designer che lavora su moda trasformabile. Ma anche il puro pragmatismo. “Volevo immaginare l’abbigliamento come rifugio portatile”, ha spiegato la studentessa. “Qualcosa che hai già addosso e che si trasforma quando serve”. Un po’ come se la tuta da sci potesse diventare un igloo. O il piumino un sacco a pelo. Logica semplice, esecuzione complessa.

Chi userebbe davvero l’abbigliamento di emergenza?
Al momento Shelter Wear è un prototipo. Funziona, ma pesa. Troppo per un uso quotidiano. “Siamo a metà tra abbigliamento funzionale e sperimentazione di moda”, ammette Yoon. Il problema è bilanciare praticità e design. Se togli gli elementi decorativi perdi identità visiva. Se li lasci aggiungi grammi inutili.
Ma il concetto tiene. Popolazioni a rischio sismico, migranti, e persone senza fissa dimora. Secondo dati governativi francesi citati nell’articolo originale, 350.000 persone in Francia non hanno un tetto proprio. In Italia i numeri sono simili. L’abbigliamento di emergenza come Shelter Wear potrebbe cambiare il primo soccorso individuale: non sostituisce i rifugi organizzati, ma copre le prime ore, quelle critiche. Quando i soccorsi non sono ancora arrivati e devi arrangiarti.
La giacca trasformabile fa pensare anche ad altri scenari: immagino campeggio estremo, spedizioni scientifiche o zone di conflitto dove la mobilità è tutto. Ogni volta che devi muoverti veloce ma portarti dietro l’essenziale, questo sistema ha un senso.
Il corpo come architettura mobile
C’è un concetto interessante dietro tutto il progetto, un concetto che mi ha affascinato: il corpo è la prima architettura. Quando gli edifici crollano, ci resta il corpo, il nostro guscio personale. Shelter Wear lo tratta come un sito mobile di rifugio. Non è più solo “cosa indossi” ma “dove vivi, temporaneamente”.
Questo, credo, cambierà il modo di pensare l’abbigliamento di emergenza. Non più kit separato che magari dimentichi a casa, ma infrastruttura corporea. Ci porteremo il riparo addosso, come una tartaruga. Suona assurdo finché non sei in mezzo a un disastro e l’unica cosa che hai è quello che indossavi quando è successo.
Nei prossimi 20 anni gli eventi climatici estremi aumenteranno: terremoti, alluvioni, incendi. Le soluzioni indossabili per emergenze non sono più materia da survivalisti, ma design sostenibile applicato a problemi concreti.
Cosa manca per produrlo davvero?
Yoon ha fatto tutto da sola. Progetto, prototipo, test. Ha 22 anni e studia. Shelter Wear per ora è una dichiarazione d’intenti più che un prodotto commerciale. Per arrivare sul mercato servirebbero: riduzione del peso (sotto i 2 kg sarebbe l’ideale), materiali ancora più resistenti, costi contenuti (deve essere accessibile), una partnership con ONG o protezione civile.
Tecnicamente si può fare. I tessuti esistono, le zip pure: il problema è economico e logistico. Produrre di abbigliamento emergenza ibrido costa più che fare giacche normali. E il mercato? Al momento è piccolo. A meno che governi o organizzazioni internazionali non inizino a comprarne per distribuirli: in quel caso, si, potrebbe scalare.
Nel frattempo il progetto ha vinto un premio, è finito su riviste di design, circola su Instagram. L’account di Yoon (@yoon_myat_su_lin) ha 165 follower. Pochi. Ma il concetto viaggia. E forse è quello che conta.
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Una giacca che si trasforma in tenda non risolve la crisi abitativa globale, e di certo non elimina i terremoti e gli altri disastri. Ma cambia una variabile: il tempo. Quelle prime ore dopo il disastro, quando i soccorsi non sono arrivati e serve qualcosa subito.
Shelter Wear dice: puoi indossare la soluzione. Pesa tre chili, sta in un gilet, funziona. Certo, costa più di una giacca normale.
Per ora.
