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Medicina

La Scienza vuole usare i funghi per riattivare gente in stato neurovegetativo

Non tutti sono spariti lasciando il loro corpo su un letto: alcuni pazienti in stato neurovegetativo sono ancora lì, non sappiamo come riacciuffarli.

22 Ottobre 2019
Gianluca RiccioGianluca Riccio
⚪ 4 minuti
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stato neurovegetativo

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Nel 2006, il neuroscienziato Adrian Owen ed i suoi colleghi annotarono e riportarono ciò che accadde quando ad una donna ridotta allo stato neurovegetativo fu chiesto di immaginare di giocare a tennis. Il suo cervello mostrò un percorso di attività del tutto simile a quello di una persona sana.

"Non era del tutto assente," scrive Owen nel suo libro Nella zona grigia. Un neuroscienziato esplora il confine tra la vita e la morte. “Ci rispondeva, faceva ciò che le chiedevamo.”

È da fine anni '90 che Owen va a caccia di segnali di coscienza nelle persone che ne sono considerate ormai prive. I suoi pazienti hanno disordini dovuti ad incidenti, danni cerebrali. Qualcuno è lì per altre situazioni che hanno comportato privazione di ossigeno al cervello. I disordini della coscienza sono diversi da un coma: negli stati vegetativi o in quelli con segnali minimi le persone sono sveglie, ma non presenti. Possono avere gli occhi aperti, li muovono occasionalmente: ci sono "quasi", ma quel "quasi" fa la differenza.

Qualcuno è ancora con noi

Owen e altri hanno presentato studi che mostrano come dal 15 al 17% dei pazienti con disordini della coscienza può produrre risposte cerebrali come la donna cui fu chiesto di immaginare il tennis. Un passo importante, che però lascia tanta rabbia: sappiamo che alcune di queste persone sono lì, da qualche parte, ma non sappiamo come riportarle qui.

L'articolo prosegue dopo i link correlati

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Un paper pubblicato la scorsa settimana sulla rivista The Neuroscience of Consciousness ha esaminato una proposta di rottura. Dare ai pazienti con disordini di coscienza la psilocibina, l'ingrediente attivo presente nei funghi allucinogeni (e oggetto di studi da parte di una nuovissima branca medica) per indurre il recupero della coscienza, o della capacità di manifestarla.

Andrew Peterson, assistente professore all' Institute for Philosophy and Public Policy della George Mason University, ha detto che la sua reazione di istinto alla lettura della proposta è stata di sbigottimento, ma poi ha ottenuto la sua attenzione.

L'idea di dare la psilocibina a questi pazienti è basata sulle teorie che riguardano il rapporto tra complessità del cervello e coscienza. La complessità è il livello a cui arrivano a comunicare tra loro diverse regioni del cervello, e bassi livelli di consapevolezza sono associati a minore complessità.

La psichedelia sembra aumentare i livelli di complessita oltre i limiti della normalità, come dice Gregory Scott, neurologo all'Imperial College di Londra e co-autore del paper che propone l'uso della psilocibina. Non ci sono prove scientifiche definitive che gli stati di coscienza "migliorino" con l'uso della sostanza, ma una nutrita casistica mostra diversi esempi di aumento della complessità cerebrale. È per questo che Scott e il suo collega Robin Carhart-Harris hanno proposto un test.

La sperimentazione

I trial servirebbero a misurare il valore terapeutico della psilocibina, e mostrarci qualcosa di nuovo sulla coscienza. La psilocibina interagisce con un particolare recettore della serotonina, e aumenta l'attività neuronale in relazione ad esso. Molti di questi neuroni sono concentrati in punti che si ritengono implicati nella formazione della coscienza, e vedere la presenza di risposte agli stimoli sarebbe la conferma che si tratta di aree cruciali del cervello.

Scott e Carhart-Harris raccomandano estrema cautela e test inizialmente su soggetti sani nello stato di sonno o sedazione, per vedere quanto la psilocibina interviene sulla coscienza in questi stati. In caso di risultati positivi i ricercatori pensano di estendere i test a pazienti in stato neurovegetativo.

La ragione è assolutamente (e giustamente) etica. Non ci sono attualmente test, e sarebbe un reato praticarli su persone non consenzienti e incapaci di manifestare disagio o eventuale sofferenza. La psilocibina è stata valutata come "terapia rivoluzionaria" dalla FDA per i risultati dei test su pazienti depressi e refrattari ai farmaci. I pazienti in stato neurovegetativo però sono un'altra cosa.

I rischi etici dell'esperimento

Anzitutto c'è la possibilità che questo stato neurovegetativo sia una protezione dal disagio e dalla sofferenza di aver perso le capacità cognitive necessarie a vivere. Se quei pazienti non hanno attualmente coscienza non è affatto detto che ritrovarla sarebbe motivo di felicità. Potrebbe essere il contrario, e rappresentare per loro una prigione crudele.

Idem in caso di effetti ansiogeni o spaventosi, che i pazienti in quello stato subirebbero senza poter reagire in alcun modo.

"Solo perchè parenti e amici dei pazienti, o l'opinione pubblica vorrebbero riportarli con noi non significa che i medici possano sentirsi autorizzati a praticare su di loro ogni cosa," dice Owen. Purtuttavia, in caso di risposte positive in soggetti sani, Owen stesso non rinuncerebbe a procedere. perchè rinunciare ad una causa del genere sarebbe comunque un delitto. 20 anni di nuove conoscenze sulla materia non ci sarebbero stati se lui stesso avesse rinunciato a lottare.

E poi, siamo sinceri: si tratta di persone che 20 o 30 anni fa sarebbero morte. Oggi sono ancora lì in quei letti perchè la medicina ha fatto progressi enormi (perfino con macchine radicali che mettono in standby la morte per chi dovrebbe essere già morto, come la ECMO).

Col tempo questa "popolazione" in stato neurovegetativo aumenterà, e non è pensabile rinunciare ad aiutarla, dice Scott. Nei limiti di un basso indice di rischio bisogna provare a riportarla alla vita, è un dovere morale.

Tags: cervellocoscienzapsichedeliapsilocibinastato vegetativo


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