I cosiddetti “xenobot” potrebbero sostituire i tradizionali robot in metallo o plastica senza inquinare il pianeta, ma sollevano diverse questioni etiche.
Si tratta di xenobot, “macchine viventi” con dentro cellule staminali di rana in una nuova configurazione progettata da un algoritmo informatico.
Nel laboratorio di Michael Levin alla Tufts University, le cellule possono aspettarsi di trovarsi in una insolita compagnia.
Macchine viventi, i Frankenstein dell’era moderna
Qui, i precursori della pelle di rana si avvicinano alle cellule che, in un’altra vita, avrebbero potuto aiutare il battito cardiaco di un anfibio. Sono perfetti estranei: entità biologiche che, fino a questo punto, non avevano rapporti d’affari. Eppure, Levin e i suoi colleghi hanno scoperto che le cellule della pelle e le cellule del cuore possono essere spinte in coalescenza. Affiancate, si auto-organizzeranno in intricati mosaici tridimensionali di cellule di rana che però non sono rane.
Progettati da un algoritmo informatico e modellati chirurgicamente da mani umane, questi robot viventi, degli ibridi cuore-pelle delle dimensioni di circa un granello di sabbia, non assomigliano a nulla che si trovi in natura.
Ma i compiti che svolgono sono stranamente familiari: senza alcun input esterno, possono muoversi sulle piastre di Petri, spingere avanti e indietro oggetti microscopici e persino “aggiustarsi” dopo essere stati tagliati.
Levin definisce (a ragione, anche) questi gruppi di cellule “nuove forme di vita”: non sono organismi né macchine, ma forse una via di mezzo.
Chiamati “xenobot” in onore delle Xenopus laevis, le rane africane da cui derivano le loro cellule, hanno un enorme potenziale per rivelare le regole che regolano il modo in cui si assemblano i mattoni della vita.
Con un sacco di aggiustamenti aggiuntivi, un giorno la tecnologia xenobot potrebbe anche essere sfruttata per distribuire farmaci nel corpo, raccogliere contaminanti ambientali e altro ancora. Levin e i suoi colleghi lo scrivono oggi sulla rivista Proceedings of National Academy of Sciences. A differenza dei robot tradizionali, gli xenobot viventi e autorigeneranti del futuro potrebbero teoricamente realizzare queste imprese senza inquinare il pianeta, e ripararsi da soli in caso di danni.
Mentre la plastica e altri polimeri difficili da degradare continuano ad accumularsi nell’ambiente, “l’approccio incredibilmente innovativo” offerto dagli xenobot “potrebbe essere davvero importante per la sostenibilità”, afferma Tara Deans, ingegnere biomedico e biologo sintetico dell’Università di Utah.
Ma gli xenobot sollevano anche una serie di domande etiche
Forse suona un po’ apocalittico, ma se le cose si mettessero male gli umani potrebbero aver bisogno di protezione da queste e altre forme di vita artificiale. “Quando crei la vita, non hai una buona idea di quale direzione prenderà”, afferma Nita Farahany, che studia le implicazioni etiche delle nuove tecnologie alla Duke University. “Ogni volta che proviamo a sfruttare la vita,” dice, “dovremmo riconoscere che la cosa può anche finire male”.
Negli ultimi decenni, l’umanità ha compiuto incredibili progressi nella robotica. Le macchine ora possono padroneggiare difficili giochi da tavolo e navigare su terreni difficili; possono guidare sé stesse come veicoli autonomi e cercare sopravvissuti a seguito di disastri. Ma anche nelle loro configurazioni più creative, i metalli e le materie plastiche semplicemente non possono essere all’altezza delle cellule.
Sistemi biologici: molto più avanzati dei robot meccanici
“I sistemi biologici fanno invidia alla robotica”, afferma Levin. “Sono adattabili, flessibili, si riparano da soli. Non ci sono al mondo robot in grado veramente di farlo.”
Per questo Levin e i suoi colleghi hanno deciso di realizzarne uno. Insieme agli esperti di robotica Sam Kriegman e Josh Bongard dell’Università del Vermont, ha chiesto ad un algoritmo informatico di progettare una serie di macchine viventi, usando come materia prima pelle e cellule cardiache di rana. L’algoritmo è stato addestrato a ottimizzare ogni xenobot per una diversa funzione di base, come spostarsi avanti e indietro o manipolare oggetti.
Dopo aver testato diverse configurazioni, l’algoritmo seleziona i progetti digitali che ritiene più adatti al compito da svolgere. I ricercatori tentano poi di ricreare questi progetti nel laboratorio di Levin.
“Alle cellule piace stare insieme”
Anche dopo essere state raschiate dagli embrioni di rana e fatte a pezzi in un disco pieno di liquidi, le cellule della pelle e del cuore correranno ad unirsi. “Le cellule amano stare insieme”, dice Levin. È lui il microchirurgo che ha preso i robot viventi appena nati e li ha scolpiti nelle forme specificate dal computer.
Tutti gli ingredienti degli xenobot vengono da una rana autentica, ma non c’è nulla di anfibio nelle forme finali che hanno preso. Alcuni si sono trasformati in forme sconnesse. altri hanno preso la forma di strutture vuote simili a prismi. Ai robot mancavano arti, scheletri e sistemi nervosi. Ma hanno affrontato facilmente i compiti per cui erano stati progettati.
Privi di bocche o sistemi digestivi, sono alimentati esclusivamente dai pezzetti di tuorlo embrionale con cui sono stati “montati”. Per questo muoiono dopo circa una settimana quando quel liquido di coltura si secca, dice Bongard. Ma lui e i suoi colleghi pensano che un giorno i robot potrebbero essere usati per trasportare droghe nei corpi umani o per raschiare la placca dalle arterie. Rilasciati nell’ambiente, potrebbero monitorare le tossine o spazzare via le microplastiche dagli oceani.
Il team sta già sperimentando diversi tipi di cellule, per diversi tipi di funzioni. Gli xenobot sembrano anche in grado di creare nuove versioni di sé stessi, mettendo insieme le singole celle fino a quando non iniziano a fondersi, dice Levin. Sono anche resistenti: una volta rotti, i robot riparano semplicemente le loro ferite e continuano.
E ora gli immancabili problemi e un po’ di dubbi etici
Da questa tecnologia potrebbe derivare molto di buono, ma è anche importante considerare potenziali rischi. Lo afferma anche Susan Anderson, filosofa ed esperta di etica delle macchine all’Università del Connecticut. Nelle mani sbagliate, il potere degli xenobot potrebbe essere facilmente sfruttato come arma biologica. Trasporterebbe nel corpo delle persone veleni anziché medicine.
Gli umani hanno già armeggiato con le ricette della vita. Negli ultimi anni, i bioingegneri hanno riprogrammato le cellule per sfornare farmaci salvavita, spogliare i genomi fino ai loro stati più minimi e ibridare animali con altri animali (o con cellule umane).
Ma le forme di vita multicellulare sintetizzate da zero sono ancora poche e lontane tra loro. Anche perché gran parte dello sviluppo biologico rimane un mistero. I ricercatori non sono ancora sicuri, ad esempio, di come si manifestino i tessuti, gli organi e le appendici.
Studiare gli xenobot potrebbe sicuramente aiutare a decifrare quel codice di sviluppo. Ma per arrivarci, gli scienziati dovranno prima sperimentare. Padroneggiare tecniche e tecnologie che non comprendono appieno. A partire dall’algoritmo di machine learning che progetta queste forme di vita.
Bongard e i suoi colleghi riconoscono la delicatezza del loro lavoro. “il problema etico intorno a questo tema non è banale”, dice lo studioso. Sebbene i ricercatori non abbiano ancora portato i bioeticisti a vedere le loro ricerche, “è qualcosa che dovremo fare. È utile nel quadro della discussione su cosa fare con questa tecnologia”, aggiunge. Innanzitutto, però, “volevamo solo dimostrare che ciò era possibile”.