“Penso, dunque sono”. La frase di Cartesio racchiude il mistero più profondo dell’esistenza umana: l’origine della coscienza. Da dove viene quella sensazione di essere “qualcuno”? Perché non siamo solo macchine biologiche che elaborano informazioni, ma esseri consapevoli? Un nuovo studio ha provato a rispondere confrontando le due teorie principali sulla coscienza: la IIT e la GNWT.
Usando risonanza magnetica funzionale, magnetoencefalografia ed elettroencefalografia, i ricercatori hanno mappato l’attività cerebrale di 256 persone. I risultati fanno vacillare entrambe le teorie, ma aprono anche strade promettenti. Questo è il bello della scienza quando affronta i grandi misteri: ogni risposta incompleta è comunque un passo avanti nell’ignoto.
Lo scontro dei titani teorici e l’origine della coscienza
All’angolo destro, con i guantoni rossi abbiamo la Teoria dell’Informazione Integrata (IIT): sostiene che la coscienza emerge quando le informazioni dentro un sistema complesso (il nostro cervello) diventano altamente interconnesse e unificate. Sintesi brutale? La coscienza è come una festa esclusiva dove le informazioni si riuniscono e improvvisamente, raggiunta una massa critica di invitati, si accende la consapevolezza.
All’angolo opposto, con i guantoni blu troviamo la Teoria del Workspace Neuronale Globale (GNWT), che vede la coscienza come un sistema di broadcasting: parti diverse del cervello portano pezzi essenziali di informazione “alla ribalta”, e questo palcoscenico mentale produce l’esperienza cosciente. Sintesi brutale? Immaginate un telegiornale interiore che trasmette solo le notizie più importanti; quello sarebbe il contenuto della vostra coscienza.
Queste visioni contrastanti sull’origine della coscienza hanno bisticciato per anni nei corridoi accademici. Ora, i ricercatori dell’Allen Institute hanno deciso di fare qualcosa di insolito: metterle alla prova contemporaneamente con un approccio chiamato “collaborazione avversariale”.
Un esperimento ambizioso per risolvere un enigma antico
Gli scienziati, come detto, hanno monitorato l’attività cerebrale di 256 partecipanti mentre guardavano delle immagini, utilizzando strumenti sofisticati per seguire il flusso sanguigno, l’attività magnetica ed elettrica nel cervello. I risultati? Informazioni legate all’attività cosciente sono state trovate nella corteccia visiva, ventrotemporale e frontale inferiore. Risposte prolungate nelle aree occipitali e temporali riflettevano la durata dello stimolo, e c’era una sincronizzazione specifica tra aree frontali e visive.
Se vi sembra complicato, non preoccupatevi. La sostanza è che queste scoperte supportano parzialmente entrambe le teorie, ma contemporaneamente ne mettono in crisi aspetti fondamentali. Quali? Presto detto. Lo studio non ha trovato connessioni sufficientemente durature nelle regioni posteriori del cervello (come previsto dalla IIT), né connessioni nelle regioni anteriori (come suggerito dalla GNWT) tali da far prevalere una teoria sull’altra. Nessun vincitore, almeno nell’incontro regolamentare, un po’ come il primo Rocky contro Apollo Creed (che poi perse ai punti).
Era chiaro che nessun singolo esperimento avrebbe potuto confutare decisamente una delle due teorie.
Così ammette Anil Seth, professore di neuroscienze cognitive e computazionali all’Università del Sussex, co-autore del lavoro pubblicato su Nature.

Quando la competizione diventa collaborazione produttiva
Di questo studio mi affascina non tanto il “fallimento” nel rispondere alla domanda fondamentale, quanto il modo in cui ha trasformato la competizione in progresso scientifico. La collaborazione avversariale (ricercatori “rivali” che lavorano insieme pur sostenendo teorie opposte) ha velocizzato la ricerca.
Christof Koch, ricercatore emerito presso l’Allen Institute e appassionato al mistero dell’origine della coscienza da una vita, lo spiega magnificamente:
Le collaborazioni avversariali sono un potente processo sociale, poco utilizzato a causa della sua natura impegnativa. Il campo biomedico potrebbe trarre enormi vantaggi dalla competizione ‘amichevole’ tra teorie. Ma richiede un grande sforzo di cooperazione.
Nel frattempo, la ricerca continua. E benché non sappiamo ancora da dove nasca precisamente la nostra coscienza, ogni esperimento ci avvicina alla risposta.
O forse, come sospetto, il “problema difficile della coscienza” resterà tale ancora per molto tempo: un affascinante enigma al confine tra neuroscienze e filosofia, dove lo strumento che indaga (la mente) coincide con l’oggetto indagato.
Una sorta di cane che si morde la coda, ma con un pizzico di consapevolezza in più.