Quante volte avete sentito la frase “escalation controllata” negli ultimi mesi? Dimenticatevela. L’attacco in Iran di stanotte ha polverizzato ogni teoria sulla gestione graduale dei conflitti mediorientali.
Netanyahu ha scelto il tutto per tutto: invece di aspettare che Teheran completasse il suo arsenale nucleare, ha deciso di cancellarlo con 200 tonnellate di esplosivo. Il risultato è una regione in fiamme e un mondo che trattiene il respiro. Perché quello che è successo a Teheran non è solo cronaca, è il punto di non ritorno di una crisi che covava da anni. E adesso l’Iran deve decidere: subire in silenzio o rispondere col fuoco?
La notte che ha cambiato il Medio Oriente
L’operazione “Leone che sorge” è iniziata alle 3 del mattino di venerdì 13 giugno con un coordinamento militare che ha dell’incredibile. Duecento caccia israeliani F-35 e F-16 hanno attraversato lo spazio aereo di tre paesi per raggiungere gli obiettivi iraniani, colpendo simultaneamente otto siti strategici. L’intelligence americana aveva previsto questo scenario, ma la portata dell’attacco ha superato ogni previsione.
Benjamin Netanyahu ha giustificato l’operazione con parole che non lasciano spazio all’interpretazione:
“L’Iran poteva produrre un’arma nucleare in pochi mesi. Era un pericolo chiaro e presente per la sopravvivenza di Israele”.
Il primo ministro israeliano ha parlato di un “punto di non ritorno” raggiunto dal programma nucleare iraniano, con scorte di uranio arricchito al 60% che secondo l’AIEA ammontano a circa 165 chilogrammi.
I target principali includevano il sito di Natanz, cuore dell’arricchimento uranifero iraniano, già colpito in passato dal virus informatico Stuxnet, e la base militare segreta di Parchin alle porte di Teheran. Le esplosioni hanno illuminato il cielo notturno della capitale iraniana, mentre i sistemi di difesa aerea faticavano a intercettare i missili israeliani.
Attacco in Iran, i morti eccellenti e la reazione che si attende
L’attacco ha decapitato la leadership militare iraniana con una precisione chirurgica. Tra le vittime confermate dai media di stato iraniani ci sono Hossein Salami, comandante in capo dei Pasdaran, Mohammad Bagheri, capo di stato maggiore delle forze armate, e almeno due scienziati nucleari di primo piano: Mohammad Mehdi Tehranchi e Fereydoun Abbasi.
La Guida Suprema Ali Khamenei ha promesso una “punizione dura e dolorosa”, mentre il ministro degli Esteri iraniano ha dichiarato che Teheran ha il “diritto legale e legittimo” di rispondere. Ma le prime reazioni ufficiali sembrano più caute del previsto. Come abbiamo già osservato in passato, l’Iran tende a calibrare le sue risposte per evitare un’escalation incontrollabile.
L’intelligence iraniana aveva ricevuto avvertimenti da un “paese amico” sulla possibilità dell’attacco, ma evidentemente la preparazione difensiva non è stata sufficiente. La velocità e la coordinazione dell’operazione israeliana hanno colto di sorpresa anche i sistemi S-300 russi che proteggevano alcuni siti strategici.

Trump e il fallimento della diplomazia
Il timing dell’attacco in Iran rivela la frattura profonda tra Donald Trump e Netanyahu sulla gestione della crisi iraniana. Il presidente americano aveva puntato tutto sui negoziati indiretti mediati dall’Oman, con il sesto round di colloqui previsto proprio per domenica. Trump aveva anche bloccato precedenti piani di attacco israeliani, preferendo la strada diplomatica.
Il segretario di Stato Marco Rubio ha chiarito immediatamente la posizione americana: “Si tratta di un’azione unilaterale di Israele. Non siamo coinvolti negli attacchi contro l’Iran”. Una presa di distanza netta che però non nasconde l’imbarazzo di Washington (né i sospetti su un finto contrasto che nasconde in realtà un tacito accordo), costretta a gestire le conseguenze di una decisione presa senza il suo consenso.
In ogni caso, la Casa Bianca ha convocato d’urgenza il Consiglio di Sicurezza Nazionale, mentre il Pentagono ha autorizzato l’evacuazione delle famiglie del personale militare da tutto il Medio Oriente. Gli Stati Uniti stanno riducendo la presenza diplomatica in Iraq, Bahrain e Kuwait, temendo ritorsioni iraniane contro le basi americane.
Attacco in Iran, gli scenari che si aprono
L’attacco apre tre possibili scenari, tutti carichi di rischi.
Il primo è quello della rappresaglia limitata: l’Iran potrebbe rispondere con attacchi mirati contro Israele, usando missili balistici e droni, cercando di evitare il coinvolgimento diretto americano. È lo scenario più probabile, considerando che Teheran ha già sperimentato questa tattica negli scorsi confronti.
Il secondo scenario è quello dell’escalation regionale: l’Iran potrebbe attivare i suoi alleati regionali, dai Houthi yemeniti alle milizie irachene, aprendo fronti multipli contro Israele e le basi americane. Questo costringerebbe gli Stati Uniti a un coinvolgimento militare diretto, trasformando il conflitto in una guerra regionale.
Il terzo scenario, il più pericoloso, è quello della guerra totale: se l’Iran decidesse di uscire definitivamente dal Trattato di non proliferazione nucleare e accelerasse massicciamente il programma atomico, Israele potrebbe sentirsi obbligato a nuovi attacchi preventivi. Una spirale che potrebbe trascinare l’intera regione in un conflitto senza precedenti.
L’eredità di una notte di fuoco
L’operazione “Leone che sorge” segna la fine dell’era della deterrenza nucleare indiretta in Medio Oriente. Netanyahu ha dimostrato che è disposto ad agire anche senza il consenso americano, ridefinendo gli equilibri regionali. Ma ha anche aperto una fase di incertezza totale, dove ogni mossa può scatenare conseguenze imprevedibili.
L’Iran deve ora scegliere tra la dignità ferita e la sopravvivenza. Perché se è vero che questo attacco ha rallentato il programma nucleare iraniano, è altrettanto vero che ha reso Teheran più furiosa che mai.