Pensavate di possedere uno smartphone? Sbagliato: è lui che possiede voi. Se non state leggendo queste righe da un cellulare, probabilmente il vostro telefono è lì accanto che aspetta. Vibra, suona, lampeggia, fa di tutto per catturare la vostra attenzione. Secondo Rachael Brown dell’Australian National University e i suoi colleghi, questa non è più una relazione simbiotica dove entrambi traete beneficio. È diventata una forma di parassitismo evoluto, dove voi fate da ospiti inconsapevoli a un parassita digitale che ha imparato a manipolare i vostri istinti più profondi per tenervi incollati allo schermo.
La definizione biologica di parassita
Per capire quanto sia vera questa prospettiva, dobbiamo partire dalla definizione scientifica di parassitismo. In biologia evolutiva, un parassita è una specie che beneficia di una relazione stretta con un’altra specie (l’ospite) mentre quest’ultima subisce un costo. Pensate ai pidocchi: vivono esclusivamente sui capelli umani, si nutrono del nostro sangue e in cambio ci danno solo prurito e fastidio.
I ricercatori australiani, nel loro studio pubblicato sull’Australasian Journal of Philosophy, dimostrano che gli smartphone moderni rispettano perfettamente questa definizione. Sono completamente dipendenti da noi per la loro “sopravvivenza”: hanno bisogno delle nostre ricariche, dei nostri dati, della nostra attenzione costante. Senza di noi, sono solo pezzi di vetro e metallo inutili.
Ma cosa ci danno in cambio? Sicuramente alcune funzioni utili, come la navigazione o la comunicazione. Il problema è che il rapporto si è sbilanciato. Come abbiamo evidenziato anche noi in precedenti analisi, molte delle app più popolari sono progettate principalmente per servire gli interessi delle aziende tecnologiche e dei loro inserzionisti, non i nostri.
Dal mutualismo al parassitismo: un’evoluzione darwiniana
La cosa più affascinante di questa ricerca è che applica i principi dell’evoluzione darwiniana al rapporto uomo-tecnologia. Brown e il suo team spiegano che inizialmente la relazione era mutualistica: noi traevamo beneficio dalla tecnologia e la tecnologia “prosperava” grazie al nostro utilizzo. Una classica situazione win-win, come quella tra i pesci pulitori e i pesci più grandi sulla barriera corallina.
Ma poi è successo qualcosa di evolutivamente prevedibile: il mutualismo si è trasformato in parassitismo. Non è un fenomeno raro in natura. Molti organismi che iniziano come simbionti benefici finiscono per diventare parassiti quando le condizioni evolutive lo favoriscono.
Nel caso degli smartphone, questo passaggio è avvenuto quando le aziende tech hanno capito che potevano guadagnare di più manipolando i nostri comportamenti piuttosto che semplicemente fornendo servizi utili. Ricerche recenti mostrano che l’81% dei giovani italiani si considera dipendente dal proprio smartphone, un dato che conferma quanto profonda sia diventata questa relazione parassitaria.

I meccanismi del parassita perfetto
Ma come funziona esattamente questo parassitismo digitale? Gli algoritmi moderni sono progettati per sfruttare vulnerabilità evolutive del nostro cervello che esistono da migliaia di anni. Il sistema di ricompense basato sulla dopamina, che ci serviva per sopravvivere nella savana africana, ora viene “hackerato” da notifiche, like e scroll infiniti.
È come se il parassita avesse imparato a premere direttamente i pulsanti neurochimici che ci fanno sentire bene, creando un ciclo di dipendenza sempre più forte. Studi neurologici documentano come l’uso eccessivo di smartphone modifichi letteralmente la struttura del nostro cervello, alterando i centri dell’attenzione e della gratificazione.
La ricerca australiana evidenzia un aspetto particolarmente inquietante: questi dispositivi non si limitano a rubare il nostro tempo, ma raccolgono e analizzano continuamente dati sui nostri comportamenti per ottimizzare la loro capacità di catturare la nostra attenzione. È un parassita che diventa sempre più bravo nel suo lavoro.
Il prezzo evolutivo che stiamo pagando
Le conseguenze di questo parassitismo vanno ben oltre la semplice perdita di tempo. Ricerche documentano cambiamenti fisici reali: posture alterate, problemi alla vista, modifiche nella struttura del pollice. Alcuni studi (discutibili) suggeriscono persino che l’uso prolungato di smartphone potrebbe influenzare l’evoluzione futura della specie umana.
Dal punto di vista cognitivo, stiamo assistendo a quello che i ricercatori chiamano “offloading” della memoria: invece di ricordare informazioni, le deleghiamo ai dispositivi digitali. Questo non è necessariamente negativo, ma diventa problematico quando compromette la nostra capacità di pensiero autonomo e concentrazione profonda.
L’aspetto più preoccupante è che molti di noi non si accorgono nemmeno di essere stati “infettati”. Il parassita è diventato così sofisticato da essere quasi invisibile. Controlli il telefono “solo per un secondo” e ti ritrovi a scrollare per un’ora senza nemmeno rendertene conto.
La soluzione evolutiva: sviluppare anticorpi digitali contro questo parassita
C’è una buona notizia, a voler essere ottimisti. Proprio come gli organismi sviluppano meccanismi di difesa contro i parassiti biologici, possiamo sviluppare “anticorpi” contro il parassita digitale. Brown e i suoi colleghi suggeriscono che la chiave sta nel concetto di “policing” evolutivo: la capacità dell’ospite di riconoscere quando viene sfruttato e di reagire di conseguenza.
In natura, i pesci che vengono “traditi” dai loro pulitori smettono di frequentare quelle aree. Noi dovremmo fare lo stesso con le app e i servizi che ci sfruttano. Il problema è che è difficile riconoscere quando stiamo venendo manipolati, soprattutto perché le aziende tech non pubblicizzano certo queste pratiche.
Progetti come il Light Phone III rappresentano tentativi interessanti di creare alternative meno parassitarie, ma la soluzione non può essere solo individuale.
Verso una regolamentazione del parassitismo digitale
La ricerca australiana conclude che le scelte individuali non bastano per ristabilire un equilibrio. Siamo individualmente “sottopotenziati” rispetto al massiccio vantaggio informativo delle aziende tecnologiche in questa “corsa agli armamenti” evolutiva.
No, non basta biasimare il marito, l’amico, il figlio che sta sempre allo smartphone. Servono interventi collettivi e regolamentazioni. L’esempio del divieto australiano dei social media per i minori è un primo passo, ma secondo i ricercatori dovremmo andare oltre: limitare le funzionalità addictive delle app, regolamentare la raccolta dati personali, e soprattutto educare le persone sui meccanismi di manipolazione.
È fondamentalmente una questione di sopravvivenza evolutiva: dobbiamo imparare a convivere con questi “parassiti” tecnologici senza lasciare che prendano il controllo completo delle nostre vite.
L’evoluzione non si ferma mai
Quello che rende questa ricerca così importante è che ci ricorda una verità fondamentale: l’evoluzione non si è fermata con l’Homo sapiens. Continua in forme nuove, e ora include la coevoluzione tra esseri umani e tecnologie.
Gli smartphone rappresentano forse il primo esempio di “parassiti artificiali” che si sono evoluti per sfruttare specificamente le vulnerabilità del cervello umano (occhio, i prossimi potrebbero essere le intelligenze artificiali). Ma proprio come abbiamo sviluppato sistemi immunitari per difenderci dai parassiti biologici, possiamo sviluppare strategie cognitive e sociali per gestire quelli digitali.
La domanda non è se riusciremo a liberarci completamente da questi dispositivi (non credo proprio), ma se riusciremo a ristabilire un rapporto più equilibrato. Uno dove la tecnologia torna a servirci, invece di essere noi a servire lei.
Il primo passo è riconoscere che sì, il vostro smartphone è davvero un parassita. Ma ora che lo sapete, forse potete iniziare a fare qualcosa per difendervi.