Per settant’anni abbiamo dato per scontato che il dollaro fosse eterno. Come l’aria che respiriamo o la gravità, sembrava una legge di natura. Poi è arrivato Kenneth Rogoff con il suo ultimo libro e ci ha ricordato una verità scomoda: niente dura per sempre. Il dollaro, quella banconota verde che domina il commercio mondiale, potrebbe essere molto più fragile di quanto immaginiamo. Il suo nuovo studio “Our Dollar, Your Problem” non parla di crolli apocalittici, ma di un lento sgretolamento della fiducia che tiene in piedi l’intero sistema monetario internazionale.
La fine del privilegio esorbitante del dollaro
Per quasi un secolo, gli Stati Uniti hanno goduto di quello che Rogoff chiama il “privilegio esorbitante”: la capacità di prendere in prestito denaro dal resto del mondo a tassi favorevoli, senza affrontare i vincoli che limitano altre nazioni. Ma questo sistema, che ha funzionato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, sta mostrando segni di cedimento sempre più evidenti.
I dati parlano chiaro: la quota del dollaro nelle riserve valutarie mondiali è scesa dal 70% di quindici anni fa al 47% attuale, secondo le rilevazioni del Fondo Monetario Internazionale. Mentre la Cina ha ridotto le sue posizioni in titoli di Stato americani di oltre 100 miliardi di dollari nell’ultimo anno, scendendo a 847 miliardi a maggio 2023.

La ragione di questo declino è strutturale: gli Stati Uniti registrano da decenni un deficit commerciale, compensando l’acquisto di beni e servizi con la vendita di debiti. Ma vendere debiti al resto del mondo non è un modello sostenibile a lungo termine. Come insegnava Adam Smith, l’unica funzione del denaro è acquistare beni di consumo. Se un’economia ha più da vendere che da comprare, la sua moneta sarà naturalmente desiderata.
I 4 segnali deboli di un cambiamento epocale
Mi piace osservare i segnali deboli, quelli che sfuggono ai titoli ma raccontano storie profonde. E in questo caso, i segnali sono ovunque se sai dove guardare. Il primo è la corsa all’oro delle banche centrali. La Cina ha acquistato oro per otto mesi consecutivi, incrementando le riserve auree di 21 tonnellate solo a giugno 2023, per un totale di 2.113 tonnellate. Non è sola: Uzbekistan, Repubblica Ceca e Polonia stanno facendo lo stesso.
Il secondo segnale è l’architettura finanziaria alternativa che sta prendendo forma. Nel 2025 la Banca centrale cinese ha integrato il proprio sistema di pagamento transfrontaliero, permettendo a un blocco economico che rappresenta quasi il 40% del commercio globale di regolare i propri scambi senza passare dalla rete bancaria Swift. È un cambio di paradigma silenzioso ma rilevante.
Il terzo segnale è la frammentazione valutaria che sta emergendo. Ben 13 paesi hanno ufficialmente chiesto di entrare nei BRICS, con altri 22 che mostrano interesse. L’obiettivo dichiarato è ridurre la dipendenza dal dollaro e commerciare in valute native. Non è una mossa anti-americana, è pragmatismo economico.
Il quarto segnale è più sottile ma forse più importante: la perdita di credibilità istituzionale. Come osserva Barry Eichengreen di Berkeley, più che il peso economico, è la qualità delle istituzioni a determinare la posizione di una valuta nel sistema internazionale. Le pressioni politiche sulla Federal Reserve, le tensioni commerciali e l’instabilità politica stanno minando quella fiducia che per decenni ha sostenuto il dollaro.
Che succede se il dollaro perde la sua magia
La domanda che tutti si pongono è: cosa succede se il dollaro non è più la valuta dominante? Rogoff non è catastrofista, ma è realista. Il professore di Harvard identifica tre possibili scenari per gestire il crescente debito americano: il default (impensabile ma non impossibile), l’inflazione (poco efficace dato che gran parte del debito è a breve termine) e la repressione finanziaria (già in atto).
Un mondo post-dollaro non significa necessariamente caos. Potrebbe significare un sistema monetario più bilanciato, dove nessuna singola valuta domina completamente. L’euro mantiene circa il 20% delle riserve internazionali, lo yuan cinese sta crescendo, e perfino il franco svizzero ha quadruplicato la sua quota nelle riserve globali nell’ultimo trimestre.
Il dollaro potrà mantenere la preminenza in alcune funzioni monetarie, ma perderla in altre. Stando ai dati, la sta già perdendo.
Questo scenario multipolare potrebbe essere più stabile di quanto pensiamo. Come nota l’analisi dell’ISPI, la diversificazione valutaria riduce i rischi sistemici e offre alternative in caso di crisi. È come avere più banche invece di una sola: se una fallisce, le altre possono compensare.

Il futuro del dollaro, comunque, non è scritto
Quello che trovo affascinante nell’analisi di Rogoff è che non prevede un crollo improvviso, ma un adattamento graduale. Il sistema monetario internazionale ha già vissuto transizioni importanti: dal gold standard al dollaro convertibile in oro, poi al dollaro inconvertibile. Ogni volta, il mondo non è finito, si è evoluto.
La vera questione non è se il dollaro manterrà la sua supremazia assoluta (probabilmente no), ma come gestiremo la transizione verso un sistema più equilibrato. Come sottolineavo tempo fa, i cambiamenti monetari seguono sempre i cambiamenti geopolitici ed economici. E questi cambiamenti sono già in corso.
Il dollaro non scomparirà domani. Ma la sua egemonia incondizionata potrebbe essere già alle spalle. E forse, per un mondo che cerca equilibrio, non è necessariamente una cattiva notizia. Un sistema monetario multipolare potrebbe essere più resiliente, più equo e meno vulnerabile agli shock di una singola economia. Il futuro potrebbe essere meno americano, ma più stabile.
In fondo, come ci ricorda la storia, niente è eterno. Nemmeno il dollaro. E questo non è un dramma: è evoluzione.