Ricercatori canadesi e cinesi hanno completato il primo trapianto al mondo di un rene con gruppo sanguigno modificato. L’organo, convertito da tipo A a tipo O grazie a enzimi speciali, è stato trapiantato in un paziente cerebralmente morto a Chongqing. Per due giorni nessun rigetto, solo una reazione lieve al terzo. La tecnica, pubblicata su Nature Biomedical Engineering, potrebbe accorciare drasticamente le liste d’attesa per chi aspetta un trapianto di rene.
Come funzionano gli enzimi che cambiano il sangue
Gli antigeni del gruppo sanguigno sono etichette molecolari sulla superficie delle cellule. Nel caso del sangue tipo A, c’è uno zucchero specifico che il sistema immunitario di chi ha tipo O riconosce come estraneo e attacca. Stephen Withers e Jayachandran Kizhakkedathu, dell’Università della British Columbia, hanno trascorso oltre un decennio a sviluppare enzimi capaci di rimuovere questi zuccheri. Forbici molecolari che tagliano via l’etichetta A e lasciano esposto il tipo O sottostante.
“È tipo togliere la vernice rossa da un’auto e scoprire la base neutra sotto”, spiega Withers. “Una volta fatto, il sistema immunitario non vede più l’organo come estraneo”.
La procedura avviene durante la perfusione ipotemica, quella fase in cui l’organo viene mantenuto in vita fuori dal corpo con un dispositivo che pompa fluidi speciali. Gli enzimi vengono aggiunti al liquido di perfusione e lavorano per circa due ore. Concentrazioni basse, alta selettività. Alla fine, il rene tipo A è diventato tipo O.

Il primo test su un essere umano
Il trapianto è avvenuto a Chongqing, in Cina, su un uomo di 68 anni dichiarato cerebralmente morto. La famiglia aveva dato il consenso per utilizzare il corpo nella ricerca. Il ricevente aveva gruppo sanguigno O con un’alta concentrazione di anticorpi anti-A: esattamente il peggiore scenario possibile per testare un organo tipo A convertito.
Nei trapianti standard, il rigetto iperacuto può distruggere un organo incompatibile in pochi minuti. Gli anticorpi del ricevente attaccano immediatamente gli antigeni estranei, scatenando una reazione a cascata che blocca i vasi sanguigni e uccide l’organo. Qui non è successo. Per 48 ore il rene ha funzionato normalmente: ha filtrato il sangue, prodotto urina, mantenuto tutti i parametri nella norma.
Al terzo giorno sono ricomparsi alcuni marcatori del gruppo A sulla superficie dell’organo. Il corpo ha iniziato a produrre una risposta immunitaria, ma molto più debole rispetto a un rigetto classico. I ricercatori hanno osservato depositi di complemento e lesioni mediate da anticorpi, ma i danni erano contenuti. Il rene ha continuato a produrre urina fino al sesto giorno.
“È la prima volta che vediamo tutto questo in un modello umano”, dice Withers. “Ci dà informazioni preziose su come migliorare i risultati a lungo termine”. La conversione enzimatica non è permanente: alcuni antigeni A si rigenerano nel tempo. Ma questo primo esperimento dimostra che il rigetto immediato può essere evitato, e che le reazioni successive sono gestibili con i protocolli immunosoppressivi standard.
Il problema delle liste d’attesa
Chi ha gruppo sanguigno O è donatore universale: i suoi organi vanno bene per tutti. Ma può ricevere solo da altri tipo O. Il risultato è un paradosso crudele: oltre il 50% delle persone in lista d’attesa per un trapianto di rene ha gruppo O, e aspetta da 2 a 4 anni in più rispetto agli altri gruppi sanguigni.
In Italia la situazione è leggermente migliore grazie alla lista unica regionale, ma i numeri restano pesanti. Dal 2002 al 2022 sono stati iscritti 45.066 pazienti in lista d’attesa per trapianto di rene. Il 50% viene trapiantato entro due anni, ma per chi ha tipo O i tempi si allungano. Nel 2024 l’Italia ha registrato un record con 4.692 trapianti totali, di cui 2.110 da donatore deceduto. Ma la domanda supera ancora l’offerta.
Se la tecnica ECO (enzyme-converted organ) funzionasse su larga scala, ogni organo tipo A, B o AB potrebbe diventare tipo O. Le liste d’attesa per i pazienti O si accorcerebbero drasticamente. E i medici potrebbero concentrarsi su altre compatibilità immunologiche, quelle che determinano quanto dura un trapianto nel lungo periodo.
Dalla scoperta del 2019 al test umano
Il team di Vancouver aveva identificato i due enzimi chiave nel 2019. Altamente attivi, selettivi, efficaci a concentrazioni molto basse. Nel 2022 un gruppo di Toronto aveva dimostrato che si potevano convertire i polmoni da tipo A a tipo O, ma senza trapiantarli in nessuno. Serviva il test definitivo: un organo convertito dentro un corpo umano.
La svolta è arrivata alla fine del 2023. Kizhakkedathu era in viaggio all’estero quando i collaboratori cinesi gli hanno mostrato i dati. “Avevano convertito un rene umano e trapiantato in un ricevente cerebralmente morto. Funzionava benissimo”. Ha chiamato Withers alle prime ore del mattino canadese. “Ero euforico. Un momento da sogno”.

Cosa succede adesso
Il prossimo passo sono i trial clinici su pazienti vivi. La startup Avivo Biomedical, spin-off dell’università canadese, guiderà lo sviluppo della tecnologia per applicazioni nei trapianti e nella medicina trasfusionale. L’idea è creare sangue universale su richiesta usando gli stessi enzimi.
Natasha Rogers, clinica dei trapianti al Westmead Hospital di Sydney, definisce i risultati “rivoluzionari” (scusate, ma lo dice lei, non io). “Trattare l’organo del donatore invece del ricevente è una svolta. Lo studio dimostra che si può usare la stessa immunosoppressione dei trapianti tra gruppi compatibili”.
Restano domande aperte. La rigenerazione degli antigeni A al terzo giorno suggerisce che servirà mettere a punto protocolli per prolungare l’effetto degli enzimi o combinare la conversione con terapie immunosoppressive più mirate. Altri approcci, come gli xenotrapianti da maiale geneticamente modificato, continuano in parallelo.
Ma questa tecnica ha un vantaggio: funziona con organi umani da donatori deceduti, senza bisogno di giorni di preparazione del ricevente. Non serve più desensibilizzare il paziente con plasmaferesi e deplezione anticorpale, procedure costose e rischiose che aumentano le infezioni e le complicanze perioperatorie. Si tratta l’organo, non la persona.
Il paradosso del tipo O
C’è un’ironia in tutto questo. Il gruppo sanguigno O è considerato “primitivo” dal punto di vista evolutivo: mancano gli antigeni A e B perché non sono mai stati aggiunti. Ora scopriamo che possiamo tornare indietro, rimuovere ciò che l’evoluzione ha aggiunto e rendere qualsiasi organo compatibile con chiunque.
“È quello che sembra quando anni di scienza di base si collegano finalmente alla cura dei pazienti”, dice Withers. “Vedere le nostre scoperte avvicinarsi all’impatto nel mondo reale è ciò che ci spinge ad andare avanti”.
Per ora è un esperimento. Tra qualche anno, forse, sarà routine. E le liste d’attesa, quel paradigma in cui qualcuno deve morire perché qualcun altro possa vivere, potrebbero diventare un po’ meno crudeli.