Yuki Hanyu aveva otto anni quando decise cosa avrebbe fatto da grande. Leggeva manga di fantascienza, e tra astronavi e viaggi nel tempo, una cosa lo colpì più di tutte: la carne coltivata in laboratorio. Non gli servivano razzi o portali dimensionali. Voleva solo un modo per mangiare senza far male agli animali. Vent’anni dopo, Hanyu ha trasformato quell’ossessione infantile in IntegriCulture, una startup che sta facendo una cosa tipo folle: vendere bioreattori domestici. Non parliamo di macchinari industriali da milioni di dollari, ma di dispositivi compatti che stanno in cucina accanto al frullatore. Costano 400 dollari. E funzionano.
Shojinmeat, quando la carne diventa un progetto fai-da-te
Il progetto si chiama Shojinmeat, e il nome non è casuale. Richiama lo shojin ryori, la cucina buddhista vegetariana giapponese che esclude carne, pesce e ingredienti pungenti come aglio e cipolla. Ma invece di rinunciare alla carne, l’idea è produrla senza causare sofferenza. Un po’ come avere una stampante 3D per tessuto muscolare, solo che invece di plastica usi cellule animali e un mezzo di coltura. Hanyu, che nel frattempo è diventato CEO di IntegriCulture, ha anche un background in chimica e nanotecnologia. Questo gli ha permesso di capire che la tecnologia dei bioreattori, finora riservata all’industria farmaceutica, poteva essere semplificata e ridimensionata.
Il bioreattore domestico di IntegriCulture non richiede attrezzature esotiche. Sul sito di Shojinmeat c’è una lista completa: la maggior parte degli articoli si trova nei supermercati o su Amazon. Serve un contenitore per la coltura, alcune sostanze chimiche di base, un sistema per mantenere la temperatura costante e ovviamente le cellule. Il tutto per circa 60.000 yen, che al cambio attuale fanno poco più di 400 dollari. Il sito offre anche una guida gratuita passo-passo per chi vuole cimentarsi nell’impresa. Il metodo funziona meglio con il pollo, anche se l’azienda afferma di aver lavorato con cellule di 30 specie diverse usando sistemi più grandi.

Il problema è che nessuno sa se la vuole davvero
Perché l’entusiasmo si scontra con la realtà dei numeri. Un sondaggio del 2024 ha rivelato che il 33% degli americani non sarebbe disposto nemmeno ad assaggiare pollo coltivato. Il disgusto non è razionale, è viscerale: l’idea che la carne cresca in un contenitore d’acciaio invece che in un animale sembra innaturale. E poi ci sono le questioni ambientali, che non sono così scontate come i sostenitori della carne coltivata vorrebbero far credere. Alcuni studi suggeriscono che la produzione su larga scala potrebbe generare tra 4 e 25 volte più emissioni di gas serra rispetto all’industria della carne bovina, se non si utilizzano esclusivamente energie rinnovabili.
Nel frattempo, però, la ricerca va avanti. A Tokyo, il professor Shoji Takeuchi ha sviluppato un bioreattore a fibre cave che mima il sistema circolatorio. Le fibre (le stesse usate nei filtri dell’acqua e nelle macchine per dialisi) trasportano ossigeno e nutrienti al tessuto coltivato, permettendo di produrre bocconcini di pollo di oltre 10 grammi. Lo studio, pubblicato su Trends in Biotechnology, rappresenta un passo avanti significativo. Non più poltiglia indistinta, ma pezzi di carne con struttura e consistenza.
Il mercato dei bioreattori vale già 281 milioni
Il mercato globale dei bioreattori per carne coltivata è stato stimato a 281,5 milioni di dollari nel 2024 e si prevede che crescerà con un tasso annuo del 5,2% fino al 2034. Aziende come ABEC, GEA e Esco Lifesciences stanno investendo in sistemi sempre più efficienti. A novembre 2024, IntegriCulture ha lanciato un kit starter che include bioreattore, mezzo di coltura, agente per la dissociazione cellulare e soluzioni per la criopreservazione. È un segnale: la tecnologia si sta spostando dai laboratori farmaceutici alle cucine domestiche.
Ma c’è un paradosso. Hanyu e la sua squadra stanno lavorando per rendere accessibile qualcosa che la maggior parte delle persone non è ancora sicura di volere. La carne coltivata in casa risolve il problema etico degli allevamenti, ma introduce nuove domande: è davvero sostenibile? È sicura? E soprattutto, chi ha voglia di gestire un bioreattore accanto alla macchina del caffè?

Per ora, Shojinmeat resta un esperimento di nicchia. Ma se il prezzo continua a scendere e la tecnologia continua a migliorare, potremmo trovarci davanti a una scelta che fino a ieri sembrava impossibile: coltivare carne senza far crescere un animale. Non è detto che tutti la faranno. Ma almeno ora è possibile.