Quattro mummie precolombiane custodite all’Istituto di Antropologia e Storia avevano le maschere funerarie fuse ai crani. Letteralmente fuse: resina, argilla, cera e mais pressati sul viso fino a diventare una seconda pelle. Questo tipo di sepoltura è comune nel Sud America precolombiano, ma in Colombia ne esistono solo questi quattro esempi. Le tombe erano state depredate, il contesto archeologico era andato perduto. Restava solo quella superficie decorata, con qualche perla intorno agli occhi.
Face Lab dell’Università di Liverpool ha usato scansioni CT per rimuovere digitalmente le maschere senza toccarle. Il risultato? Quattro volti ricostruiti dopo ottocento anni: un bambino, una donna anziana, due uomini giovani. Direttamente dal passato lontano.
Maschere che si fondevano col viso
Come detto, le maschere precolombiane venivano modellate direttamente sul defunto, aderendo al cranio con una precisione quasi chirurgica. Resina, argilla, cera di mais e a volte oro: materiali che col tempo si solidificavano sull’osso creando una superficie impossibile da rimuovere senza distruggere tutto. Il processo richiedeva una conoscenza profonda dell’anatomia umana e una maestria artigianale che pochi possedevano. Come spiega Felipe Cárdenas-Arroyo dell’Academia Colombiana de Historia, queste maschere sono di straordinaria fattura e rappresentano gli unici esempi noti in Colombia di questa pratica funeraria. In altre regioni del Sud America precolombiano, dai Maya agli Inca, l’uso di maschere mortuarie era diffuso. Ma la tecnica colombiana aveva qualcosa di particolare: la fusione era così perfetta che i corpi sembravano ancora vivi.
I quattro individui vivevano nelle Ande colombiane, nella regione della Cordillera Orientale. La datazione al radiocarbonio li colloca tra il 1216 e il 1797. Un bambino di sei o sette anni, una donna sulla sessantina, due giovani uomini. Le maschere sono danneggiate: nasi mancanti, pezzi rotti alla base, ma alcune perline decorative resistono ancora intorno agli occhi. Le tombe erano state saccheggiate secoli fa, quindi mancano informazioni sul contesto. Non sappiamo chi fossero, che ruolo avessero nella loro comunità, perché meritassero un trattamento funerario così elaborato.

La tecnologia toglie gli strati senza toccare nulla
Jessica Liu, project manager di Face Lab, ha coordinato il lavoro di ricostruzione digitale. Il team ha iniziato con scansioni CT complete dei crani mascherati. La tomografia computerizzata usa raggi X per generare immagini 3D virtuali, fotografando migliaia di sezioni bidimensionali e ricomponendole. In questo modo i ricercatori hanno potuto “smascherare digitalmente” i crani rimuovendo gli strati che contenevano la maschera, senza danni fisici ai reperti. Una volta ottenuti i modelli 3D dei crani, è iniziata la fase più complessa: ricostruire i volti.
Il processo funziona un po’ come la scultura virtuale. Si usa lo scheletro del cranio come impalcatura e si aggiungono muscoli, tessuto molle e grasso. Per i due uomini giovani, il team ha utilizzato dati di profondità del tessuto facciale provenienti da colombiani moderni. Per la donna e il bambino non esistono dati contemporanei paragonabili, quindi i ricercatori hanno usato riferimenti anatomici generali e aggiunto grasso extra al volto del bambino per riflettere la struttura facciale infantile.
La forma del naso è stata determinata misurando i tessuti ossei del cranio e selezionando l’opzione più adatta da un database digitale. Tono della pelle, colore degli occhi e dei capelli sono stati scelti in base alle caratteristiche tipiche della regione. Ogni volto è stato presentato con un’espressione neutra per evitare interpretazioni sulla personalità degli individui. Poi è arrivata la parte più difficile: aggiungere la texture. Rughe, ciglia, lentiggini, pori. Liu ha spiegato che la texture è sempre la sfida più grande, perché semplicemente non si sa come si presentassero davvero: cicatrici, tatuaggi, variazioni nel tono della pelle. Quello che il team ha presentato è una rappresentazione media, basata su ciò che si conosce di questi individui.
Non sono ritratti, sono approssimazioni
Liu è stata chiara su questo punto, peraltro ovvio: i volti ricostruiti mostrano come avrebbero potuto apparire queste persone, non come apparivano realmente. Le ricostruzioni si basano su medie di gruppo, ma nessuno è mai una media perfetta. Le caratteristiche individuali, le espressioni, i segni distintivi: tutto questo resta al di là delle possibilità della tecnologia attuale. Eppure, è stata comunque una bellissima operazione. Quello che Face Lab ha fatto è restituire un’identità visiva a quattro individui che erano rimasti anonimi per ottocento anni. Non sono ritratti fotografici, ma immagini che permettono di riconoscere una presenza umana dietro le maschere.

Il progetto è stato presentato per la prima volta nell’agosto 2025 all’XI Congresso Mondiale sugli Studi sulle Mummie a Cusco, in Perù. Un palcoscenico appropriato, considerando che il lavoro riguarda proprio pratiche funerarie sudamericane. Face Lab, fondato nel 2015 come centro pionieristico di ricerca craniofacciale, collabora spesso con le forze dell’ordine per l’identificazione forense. Ma i progetti sul patrimonio culturale, come questo, permettono ai musei e agli studiosi di ripensare il passato umano in modi nuovi. Tecniche simili sono state usate anche su mummie egiziane, dove la fenotipizzazione del DNA ha permesso di ricostruire i volti a partire da informazioni genetiche.
Perché queste maschere precolombiane sono importanti
Le maschere colombiane sono testimonianza di una cultura che investiva risorse e competenze straordinarie nella preparazione dei morti. La fusione perfetta tra maschera e cranio richiede tempo, precisione, materiali specifici. Non è un trattamento che veniva riservato a chiunque. Probabilmente questi quattro individui appartenevano all’élite o avevano un ruolo particolare nelle comunità precolombiane cui appartenevano. Ma senza il contesto archeologico, restano solo ipotesi. Quello che sappiamo è che la loro società aveva sviluppato una comprensione sofisticata dell’anatomia umana e tecniche artistiche avanzate. Le maschere erano fatte per durare, per preservare l’identità anche dopo la morte.
Oggi, grazie al lavoro di Face Lab, quei volti tornano visibili. Non sono più solo oggetti museali anonimi, ma persone con una storia. Un bambino che non ha raggiunto l’età adulta, una donna che ha superato i sessant’anni in un’epoca in cui la vita media era molto più breve, due giovani uomini nel pieno delle forze. Quattro esistenze che attraversano i secoli e ci guardano, grazie a una combinazione di artigianato antico e tecnologia moderna.
La loro eredità culturale continua a essere riconosciuta, e questo è forse il regalo più grande che la tecnologia può fare al passato.