La cella si chiude. Il tempo passa. La pena viene scontata. Poi il cancello si riapre e tutto ricomincia. Più della metà dei detenuti statunitensi torna in carcere entro pochi anni. In Norvegia, dove le prigioni sembrano hotel e le pene sono più miti, il tasso di recidiva crolla al 20%. Come è possibile? Un nuovo studio pubblicato dalla Royal Astronomical Society ribalta l’intuizione su cui si fondano i sistemi carcerari occidentali: punire più duramente non riduce il crimine. Anzi, spesso lo alimenta.
Il problema non sta nella severità della pena, ma in chi la infligge e perché. Quando un sistema punitivo serve degli interessi economici invece che la giustizia, la fiducia collassa. E senza fiducia, la punizione perde ogni efficacia.
Il paradosso della punizione
I numeri parlano chiaro. Gli Stati Uniti, con circa 5 detenuti ogni 1000 abitanti, hanno la popolazione carceraria più alta del mondo. L’Italia ne conta poco più di 1 ogni mille. La Norvegia 7 ogni diecimila. Ma è il dato sulla recidiva che rivela il vero problema: negli USA oltre il 55% dei detenuti torna in carcere, in Italia ancora di più (ne parliamo più avanti): in Norvegia appena il 20%. La differenza non è nella severità delle condanne. È nella percezione della loro legittimità.
Raihan Alam e Tage Rai, ricercatori dell’Università della California a San Diego, hanno testato questa ipotesi attraverso una serie di esperimenti pubblicati su PNAS. Hanno ricreato il classico gioco della cooperazione: i partecipanti potevano contribuire a un fondo comune che veniva moltiplicato e redistribuito. Un terzo giocatore aveva il potere di punire chi non contribuiva. Quando il “punitore” agiva senza incentivi personali, la cooperazione aumentava. Ma quando veniva pagato per ogni punizione inflitta, tipo un poliziotto con quota multe, il sistema collassava.
Gli esseri umani possiedono la “teoria della mente”: siamo iper-attenti alle intenzioni altrui. La punizione invia un messaggio di disapprovazione che richiede un cambiamento comportamentale. Ma quel segnale funziona solo se crediamo che le motivazioni del punitore siano giuste. Quando sembrano egoistiche o del tutto insensate, la punizione perde ogni potere di promuovere cooperazione.
Quando le multe pagano gli stipendi
Il caso di Ferguson, nel Missouri, è emblematico. Le autorità usavano le multe per finanziare i servizi cittadini, prendendo di mira in modo sproporzionato i residenti afroamericani. In tutto il territorio statunitense, miliardi di dollari vengono sequestrati attraverso la confisca di beni civili, che permette alla polizia di appropriarsi di proprietà da persone semplicemente sospettate di coinvolgimento in un crimine.
Questi incentivi perversi minano la legittimità del sistema. “Quando i livelli di punizione passata sono più alti, la sensibilità alla punizione futura diminuisce”, spiegano i ricercatori. Un risultato che contraddice la teoria della deterrenza specifica, secondo cui un’esperienza di punizione più forte dovrebbe aumentare la sensibilità verso condanne future.

Sistemi carcerari, il modello norvegese (che funziona)
La Norvegia ha capito qualcosa che sfugge ancora a molti, compresi coloro che ancora si indignano vedendo le condizioni “da pascià”1 offerte a persone come Anders Breivik, che ha ucciso 77 persone nel 2011 e tra meno di 8 anni sarà libero. Perché?
Perché le prigioni norvegesi, come quella di Halden, assomigliano più a campus universitari che a fortezze. Celle con bagno privato, cucine comuni, attività ricreative. Il costo? Molto più alto del modello punitivo americano. Il risultato? Un tasso di recidiva che è meno della metà.
Come spiega Alessio Scandurra dell’organizzazione Antigone:
“Nei paesi democratici le persone non vanno in carcere perché sono cattive. Si va in carcere perché si sono violate le leggi. Per questo è importantissimo che il carcere rispetti le proprie stesse leggi”.
Un sistema carcerario che punta sul recupero anziché sulla vendetta ottiene risultati misurabili. La sicurezza della popolazione aumenta perché i detenuti, una volta usciti, non tornano a delinquere.
L’Italia e il collasso strutturale
Avete presente il discorso appena fatto sulle recidive americane dovute a un sistema carcerario che “premia gli arresti”, e quelle minori in Norvegia, frutto di un sistema pubblico e “collettivista”?
In Italia c’è un sistema pubblico e collettivista che funziona molto peggio di quello americano, sul piano delle recidive: amici, in Italia il 68,7% dei detenuti torna a delinquere. Praticamente due su tre. Al 31 luglio 2025, c’erano 62.569 detenuti per una capienza regolamentare di poco oltre 50.000 posti. Il sovraffollamento genera tensioni, violenza tra detenuti e mette a dura prova il personale penitenziario. Il 2024 ha segnato il record storico di suicidi in carcere. Le strutture sono datate, spesso ottocentesche. L’automazione è inesistente o minimale.
Il decreto carceri approvato dal governo prevede l’assunzione di 1.000 nuovi agenti e la creazione di circa 10.000 posti entro il 2027. Non basteranno mai. E comunque la crisi del sistema carcerario italiano non può essere risolta unicamente attraverso un mero ampliamento della capienza carceraria.
Senza un cambio di paradigma, si rischia di perpetuare un modello basato sulla marginalizzazione.
Come saranno i sistemi carcerari e le prigioni del futuro
I sistemi carcerari del futuro dovranno essere radicalmente diversi. Non basterà costruire celle più grandi o assumere più guardie. Servirà ripensare l’intero concetto di punizione.
Il modello scandinavo indica una direzione: prigioni aperte, dove i detenuti lavorano, studiano e mantengono legami con l’esterno. La Norvegia usa dal 2014 il controllo elettronico per eseguire fuori dal carcere pene brevi o segmenti finali di condanna. I dispositivi RF e GPS sono attivati con regole chiare e attività obbligatorie. Non svuotano le prigioni per magia, ma liberano spazi per i casi che richiedono davvero la detenzione tradizionale.
In Italia, alcune cooperative sociali stanno sperimentando modelli di economia carceraria. L’Arcolaio in Sicilia e Banda Biscotti in Piemonte hanno coinvolto centinaia di detenuti in attività produttive: panifici biologici, laboratori artigianali, pasticcerie. Un doppio risultato: acquisizione di competenze spendibili fuori e dignità lavorativa dentro.
L’intelligenza artificiale potrebbe giocare un ruolo?
Certo, ma richiede cautela. Il Consiglio d’Europa ha emanato raccomandazioni per garantire che l’uso dell’IA rispetti i diritti umani. La tecnologia deve assistere il personale, non sostituirlo. Può monitorare la salute mentale, facilitare contatti con le famiglie, valutare rischi senza bias discriminatori. Ma serve trasparenza e controllo umano finale.
Come dimostrano i dati norvegesi, quando la punizione è percepita come legittima e orientata al recupero, la cooperazione sociale si rafforza. E i cancelli delle prigioni si riaprono meno spesso.
La strada è tracciata. Le prigioni del futuro saranno luoghi di recupero, non di vendetta. Privilegeranno misure alternative quando possibile, investiranno in formazione e lavoro, useranno la tecnologia con etica.
Perché un sistema che punisce senza rieducare non protegge la società. La alimenta di nuovo crimine.
Note:
- Anders Breivik è detenuto in isolamento dal 2011 per motivi sia di sicurezza (è considerato altamente pericoloso) sia di tutela da possibili aggressioni di altri detenuti.
Vive in una unità detentiva di due piani all’interno del carcere di Ringerike, dotata di tre stanze: una camera da letto, uno studio e una palestra privata. Dispone di una cucina personale, una sala TV con console per videogiochi (Xbox o PlayStation), possibilità di lavarsi i panni e cucinare autonomamente.
Gli è permesso tenere animali domestici, tra cui una piccola gabbia con tre pappagalli. Riceve visite solo da pochi operatori e può parlare con due detenuti per un’ora ogni due settimane. Tutte le comunicazioni con l’esterno (lettere, telefonate) sono controllate o censurate dalle autorità penitenziarie.
Breivik ha più volte fatto causa allo Stato norvegese, sostenendo che l’isolamento costituisce un trattamento disumano in violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani. Una corte distrettuale nel 2016 gli diede parzialmente ragione, ma in seguito la Corte d’appello e la CEDU hanno escluso violazioni dei diritti umani, ritenendo le condizioni compatibili con gli standard europei.
Le autorità norvegesi motivano l’isolamento e i privilegi materiali con la necessità di sicurezza e prevenzione del radicalismo, affermando che le condizioni relativamente confortevoli servono a compensare l’assenza di contatti umani e a mantenere la conformità ai principi dello Stato di diritto ↩︎