Alzi la mano chi ha ordinato cibo a domicilio questa settimana. Ecco, bravo. Ora provate a indovinare: di quei 25 euro che avete speso per la pizza, quanto è finito davvero nelle tasche del pizzaiolo? Circa 17 euro. Il resto? Commissioni per l’app. Spese di consegna. Costi di packaging. Il ristorante, alla fine, ci guadagna meno della metà rispetto a quando ti siedi al tavolo. E non è un problema solo suo: è un problema di tutti. Perché mentre tu ordini comodamente dal divano, i ristoranti stanno trasformandosi in qualcos’altro. Non più luoghi dove si va a mangiare, ma fabbriche che producono cibo in scatola per un algoritmo. Benvenuti nell’era del delivery.
Il modello americano: quando la comodità diventa ricatto
Colin Wallace voleva solo uno snack durante la lezione. Era il 2006, studiava ingegneria al Georgia Tech, e pensò che internet potesse aiutarlo. Costruì un sistema per ordinare online che sincronizzava automaticamente gli ordini con i ristoranti. Quel progetto diventò un’azienda, quell’azienda fu acquisita da Grubhub nel 2011. Wallace stava solo sperimentando, divertendosi con gli amici. Poi si ritrovò a guidare una società che avrebbe contribuito a cambiare i ristoranti per sempre.
Da allora negli USA il delivery ha fatto quello che fanno le grandi innovazioni tecnologiche: ha creato un bisogno che prima non esisteva, lo ha reso irrinunciabile, e poi ha presentato il conto. Secondo un’inchiesta di The Atlantic, nel 2024 quasi tre ordini di ristorante su quattro non vengono consumati nel locale. Metà degli under 45 ordina almeno una volta a settimana. Il 5% lo fa più volte al giorno. Avete letto bene: più volte al giorno.
Il problema? Negli USA le commissioni delle app come DoorDash, Uber Eats e Grubhub oscillano tra il 25% e il 35% su ogni ordine. Per ogni hamburger che arriva a casa, il ristorante cede quasi un terzo degli incassi. Alcuni locali hanno provato ad alzare i prezzi per compensare. A New York, secondo il Wall Street Journal, un hamburger consegnato a domicilio è arrivato a costare 40 dollari. Il doppio del prezzo normale. Risultato? Meno ordini, meno guadagni, meno lavoro per i rider e comunque presenza fisica inferiore. Un circolo vizioso.
Le sale si svuotano, i menu si semplificano (tutto deve sopravvivere a venti minuti in una scatola di plastica), il personale viene ridotto. Alcuni ristoranti chiudono. Altri si trasformano in dark kitchen: cucine fantasma senza clienti, progettate solo per sfornare cibo da consegnare. Tipo un laboratorio. O una fabbrica.
L’Europa non è immune: il contagio è già iniziato
Pensate che sia un problema americano? Guardiamoci intorno. In Italia il mercato del delivery vale 1,5 miliardi di euro e cresce del 10% all’anno. Il settore Delivery in Italia è passato dal 5% al 19% del mercato della ristorazione tra il 2016 e il 2022. Sei anni. Un’esplosione, complice anche la pandemia. Oggi, si posiziona intorno al 20-25% del fatturato complessivo della ristorazione.
E le commissioni? Secondo un’indagine dell’Inapp su 40.000 aziende italiane, la media è del 18,2%. Ma per un ristoratore su tre supera il 20%. E se vuoi i rider della piattaforma, non solo la vetrina digitale, arrivi al 25-30%. Giacomo Pini, consulente nel settore della ristorazione, conferma: “Può arrivare al 30%”.
Occhio: questa sembra essere la stessa dinamica degli USA, solo con qualche anno di differenza. Le app promettevano salvezza durante il Covid, ora sono diventate quasi obbligatorie. Se non usi queste piattaforme, non sarai in business. Il delivery è diventato un’arma: se il tuo concorrente ce l’ha, tu non puoi farne a meno. Anche se ci perdi.
Le dark kitchen e il futuro senza anima
Il segnale più inquietante? Applebee’s ha aperto a Long Island un ristorante con pochi tavoli e una fila di armadietti, progettato per “massimizzare la velocità di servizio per il delivery”. Non è un ristorante. È un punto di ritiro. Un magazzino con il logo di una catena.
In Italia, molti ristoranti hanno già implementato modelli di dark kitchen per ottimizzare le operazioni. Cucine fantasma, dedicate solo alla preparazione di cibo per la consegna. Niente sale, niente camerieri, niente esperienza. Solo efficienza. Il cibo diventa merce, il ristorante diventa una linea di produzione.
Una ricerca di McKinsey ha calcolato che i margini di profitto dei ristoranti oscillano tra il 7% e il 22%. Le commissioni del delivery sono più alte. Fate voi i conti. Per molti locali, ogni ordine che passa attraverso un’app è un ordine in perdita. Ma se non lo fai, perdi clienti. Un vicolo cieco.
Chi paga davvero il conto
Wallace, quello dello snack al Georgia Tech, oggi raramente ordina delivery. Dopo un anno come responsabile dell’innovazione di Grubhub, ha lasciato l’azienda. “Quando ho capito l’impatto di quello che stavo facendo, mi ha fatto male. Tipo, molto male. Ero piuttosto deluso da me stesso”, ha raccontato. Si era trovato in riunioni dove si discuteva di alzare le commissioni, sapendo che i ristoranti non avrebbero potuto assorbirle. “L’idea di calpestare quelle persone per salire al gradino successivo mi ha lasciato l’amaro in bocca”.
Non tutti hanno questi scrupoli. In Italia, nel 2021, Just Eat, Glovo e Deliveroo hanno fatturato insieme oltre 358 milioni di euro, con una crescita del 40% rispetto all’anno precedente. I ristoranti partner? Il 79,8% ha dichiarato ricavi in aumento, contro il 77,8% di quelli senza delivery. Due punti percentuali di differenza. Per cedere il 30% degli incassi.
Il delivery non ha salvato i ristoranti. Li ha solo trasformati in qualcos’altro. Fabbriche di cibo in scatola, ottimizzate per l’algoritmo, dove l’esperienza conta meno della velocità e i margini evaporano in commissioni. Lo abbiamo scritto già durante il Covid, il passaggio a un modello basato sul delivery era una necessità. Il punto è che quella necessità è diventata una trappola.
La prossima volta che ordinate, pensa a questo: quel cibo che arriva a casa costa molto di più di quanto credete. E non solo in termini economici.
