Il Kimera Underground Park non è un posto che si racconta. Lo vedi solo in controluce, da uno schermo di ultima generazione. È un bunker a 275 metri sotto il mare, il rifugio atomico dell’omonima serie distopica spagnola appena uscita su Netflix.
Un bunker di lusso, beninteso. Per pochi eletti (quanto è distopia e quanto è cronaca?). Dentro, il tempo si piega come il suolo attorno, mentre fuori la superficie si infiamma, si disfa. Un resort sotterraneo dove miliardari si isolano dal caos di una possibile guerra nucleare. Camminano nei corridoi patinati, ma con la stessa aria tesa di chi si sente già intrappolato.
Una faccia (stilizzata), magari un sorriso predefinito, ed è già troppo

Cadono le maschere nel rifugio atomico, anzi nucleare: come la nostra società
Il rifugio atomico promette protezione dagli orrori esterni, ma poi il primo problema tecnico apre un varco tra la vita piatta del bunker e l’incubo radioattivo fuori. Le notizie da superficie sono altrettanto incandescenti: radiazioni, temperature impossibili, terre bruciate. Il disagio prende piede, la psiche vacilla.
Le regole imposte da Minerva, la rigida manager del rifugio, iniziano a scricchiolare. Ritrovarsi per forza nello stesso spazio, tra segreti e dolori mai risolti, fa più male del mondo che brucia.
E la sicurezza diventa prigione.
Controllo e caos, la linea sottile della post-verità
Lo abbiamo visto in “Silo”, lo abbiamo visto in “Fallout”. E in “Wayward Pines”, e in chissà quante altre opere audiovisive. Il Grande Fratello che ci chiude in una bolla, e manipola la nostra visione del mondo.
E come negli altri casi, dietro corridoi dorati e protocolli studiati qualcosa prima o poi non gira. Il rifugio atomico è un microcosmo in cui i privilegi impongono un ordine fragile. Lì dentro, il potere si sfalda sotto la pressione delle tensioni che esplodono tra i super ricchi che hanno comprato la loro tana sicura, e ora vi si trovano segregati e spaventati. Lontani dal mondo reale, ma non dalla loro natura umana fatta di errori e violenze interiori, un po’ come il caos che governa la superficie.
Mentre l’apocalisse li minaccia fuori, dentro scoppia una nuova guerra: quella delle percezioni. Nel rifugio atomico, l’informazione è manipolata, la verità svanisce sotto la cortina della post-verità. I gemelli virtuali fatti con l’AI e la realtà distorta non sono solo dietro uno schermo, ma fanno ormai parte di ogni relazione.
La fragile sostituibilità del sé
In questa serie non si parla più solo di bombe o protezione materiale. Si scava nel fondo di ciò che rende umani o sostituibili. In un mondo in cui le identità possono replicarsi digitalmente e la memoria plasmarsi, l’individuo diventa intercambiabile, un dato da archiviare insieme a milioni di altri.
Max, il giovane protagonista ricco (anche di contraddizioni) rappresenta la disperata lotta per l’autenticità in uno scenario che tende a schiacciare la storia personale sotto la banalità della sopravvivenza.
La nostra stessa vita, sembra dirci questa serie, è diventata la prigione più o meno dorata di chi ormai si guarda più nello schermo che nello specchio. Ed è una visuale disturbante, al punto che c’è chi ha detestato questa serie. Io non sono tra questi.
“Il rifugio atomico”, un pensiero lasciato nel bunker
Il rifugio atomico è una trappola ed un rifugio allo stesso tempo. Di certo, un luogo dove finisce la certezza di chi comanda e comincia la fragilità di chi cerca dentro di sé. La tecnologia e il controllo non bastano a trattenere i fantasmi più profondi: la paura, l’odio, la solitudine. Forse il vero rifugio, o la vera condanna, è il tempo sospeso tra la fine annunciata e il desiderio di riemergere.
Consigliatissimo.