Sessantacinque anni. Per qualcuno è l’età della pensione. Per altri, quella in cui la società decide che sei “anziano”. Ma gli anziani, oggi, non esistono più. O meglio: esistono, ma iniziano molto dopo rispetto a quello che pensavamo.
Uno studio della Columbia University pubblicato nel 2025 conferma quello che molti sospettavano: i 70 anni sono i nuovi 60. La Società Italiana di Gerontologia è andata oltre, spostando l’inizio della terza età a 75 anni (e non da adesso, ma da un bel po’). Eppure, guardando le politiche pubbliche, i servizi sanitari e il linguaggio comune, sembra che nessuno lo sappia. Chiamiamo anziani persone che corrono, lavorano, viaggiano e gestiscono aziende. La terza età è diventata una convenzione anacronistica che non rispecchia più la realtà biologica.
Qualcuno ha deciso che a 65 anni sei vecchio
Cominciamo col dire una cosa: la soglia dei 65 anni come inizio della vecchiaia non ha basi scientifiche. Nasce in Germania nel 1889, quando il cancelliere Otto von Bismarck istituì il primo sistema pensionistico pubblico. Scelse 65 anni perché pochi ci arrivavano: l’aspettativa di vita media era circa 40 anni. Era un modo elegante per promettere molto spendendo poco.
Quella soglia è rimasta. È diventata una convenzione internazionale, un numero che definisce politiche, servizi e perfino il modo in cui pensiamo all’età. Ma è come continuare a usare un orologio fermo: segna sempre la stessa ora, anche se fuori il mondo è cambiato.
Oggi in Italia l’aspettativa di vita è di 83 anni. Abbiamo guadagnato più di 40 anni rispetto all’epoca di Bismarck, eppure la definizione di “anziano” è rimasta inchiodata a una soglia pensata per un’altra epoca.
Nel 2018, la Società Italiana di Gerontologia e Geriatria ha spostato ufficialmente l’inizio della terza età da 65 a 75 anni. La decisione si basa su dati concreti: gli over 65 di oggi hanno la forma fisica dei 55enni di quarant’anni fa. Non è ottimismo, è una fotografia della realtà biologica.

Il corpo dei 65enni è cambiato, il vocabolario no
Una ricerca dell’Università di Padova, pubblicata su Nature, ha identificato i meccanismi cellulari dell’invecchiamento. Gli scienziati hanno scoperto che le cellule dei tessuti connettivi perdono progressivamente le loro proprietà meccaniche con l’età. È tipo un elastico che si allenta. Ma questo processo, nei 65enni di oggi, avviene più lentamente rispetto al passato.
Perché? Alimentazione migliore, medicina preventiva, riduzione del lavoro fisicamente usurante. Non è magia: è il risultato di decenni di miglioramenti nelle condizioni di vita. Il corpo umano non ha un interruttore che scatta a 65 anni. L’invecchiamento è un processo continuo, influenzato da genetica, ambiente e stile di vita.
Esistono persone di 90 anni con una capacità cognitiva perfetta e persone di 50 con il metabolismo compromesso. L’età cronologica (quella dell’anagrafe) racconta solo una parte della storia. L’età biologica (quella delle cellule) è un indicatore molto più affidabile. Ma continuiamo a progettare tutto sulla prima, ignorando la seconda.
Terza età: quando la politica resta indietro rispetto alla biologia
In Italia, il 23% della popolazione ha più di 65 anni. Entro il 2050, sarà il 36%. Numeri che generano allarme se pensiamo agli anziani come a persone fragili, dipendenti, bisognose di assistenza continua. Ma se quei numeri raccontassero una storia diversa?
Le politiche pubbliche continuano a trattare i 65enni come se fossero biologicamente vecchi. I servizi sanitari sono progettati per una fragilità che spesso non c’è. Il linguaggio comune perpetua lo stereotipo: “anziano” è sinonimo di declino, dipendenza, fine della produttività.
Ma la realtà è un’altra. Il 36% degli over 65 italiani svolge attività fisica regolare. Molti lavorano oltre l’età pensionabile, per scelta o necessità. Altri gestiscono imprese, si occupano dei nipoti, viaggiano. Alcuni fanno tutte queste cose insieme.
Uno studio presentato al Salone del Risparmio 2025 evidenzia che gli over 65 italiani rappresentano una fonte di redditi superiore ai 300 miliardi di euro e consumi per circa 185 miliardi. Non sono un peso economico: sono un motore di sviluppo. Ma continuiamo a raccontarci la storia opposta.
Il paradosso dei centenari che non dovrebbero esistere
Michael Gurven, antropologo dell’Università della California, ha passato anni a studiare popolazioni indigene come i Tsimané del Sud America. La sua ricerca, raccolta nel libro Seven Decades: How We Evolved to Live Longer, dimostra che la longevità non è un’invenzione moderna. Gli anziani sono sempre esistiti, anche in epoche molto più pericolose di questa.
Il malinteso nasce dall’aspettativa di vita media. Quando si dice che nel 1800 l’aspettativa di vita era 35 anni, non significa che tutti morivano a 35 anni. Significa che l’alta mortalità infantile abbassava la media. Chi superava l’infanzia aveva buone probabilità di arrivare a 60, 70 o anche 80 anni.
La vera novità non è che esistano anziani, ma che siano tanti. E che stiano meglio. Come vi raccontavamo, vivere 100 anni potrebbe diventare una “forma” di normalità. Non fantascienza, ma statistica.
Cosa succede quando gli anziani non si sentono anziani
L’età psicologica è un concetto interessante. Si basa su come le persone agiscono e si sentono, non su quanti anni hanno. Un ottantenne che lavora, fa progetti e partecipa a molte attività è considerato psicologicamente più giovane di un sessantenne sedentario e passivo. Il problema è culturale. Viviamo in una società che associa automaticamente l’età avanzata al declino. Questo si chiama ageismo: discriminazione basata sull’età. E funziona in modo subdolo, perché spesso le persone anziane lo interiorizzano.
In Finlandia è stato istituito un Difensore Civico degli anziani per controllare che le decisioni politiche non discriminino questa fascia di popolazione. In Italia continuiamo a chiamarli “nonni” anche quando gestiscono aziende da milioni di euro.
Terza età: serve ripensare tutto, non aggiustare i dettagli
La questione non è semantica. Non si tratta di trovare un eufemismo più gentile per “anziano”. Si tratta di riprogettare servizi, politiche e cultura intorno a una realtà biologica che è cambiata.
La medicina dovrebbe concentrarsi sulla prevenzione, non solo sulla cura. Come sottolinea il dottor Filippo Ongaro, primo medico italiano certificato in medicina anti-aging, il vero obiettivo non è vivere più a lungo, ma vivere meglio. Arrivare a 80 anni in salute, non trascinati da una manciata di farmaci. Le città dovrebbero essere progettate per persone che a 70 anni corrono ancora, non per invalidi permanenti. Il mercato del lavoro dovrebbe riconoscere che esperienza e competenza non svaniscono a 65 anni. La cultura dovrebbe smettere di trattare la vecchiaia come un tabù o una vergogna.
La terza età è una convenzione. Ed è ora di cambiarla. Non per gentilezza o ottimismo, ma perché i dati lo impongono. Gli anziani di oggi non sono quelli di ieri. E quelli di domani saranno ancora diversi. Continuare a usare parametri vecchi di 135 anni è tipo navigare con mappe del 1889: ti perdi, sicuro.