C’era una volta la creator economy. Oggi, un ragazzo di 26 anni nel Regno Unito aggrega notizie da altre fonti, le mette su TikTok, e 1,5 miliardi di persone gli mettono “mi piace”. Si chiama News Daddy. Lo conoscete? Un pesce animato con l’intelligenza artificiale racconta le notizie imitando l’anchorman di SpongeBob: 1,4 milioni di follower lo guardano ogni giorno. MrBeast (372 milioni di iscritti YouTube) perde 80 milioni di dollari l’anno coi video ma ne guadagna 20 vendendo barrette di cioccolato. Migliaia di influencer su TikTok insegnano come diventare milionari indebitandosi per 25 milioni di dollari. “Ma tutto a posto?” (cit.)
Benvenuti nell’Internet del 2024, un gigantesco centro commerciale travestito da piazza pubblica.
Non è più un luogo dove condividere idee, informarsi, creare comunità. È diventato un meccanismo per venderti cose che non ti servono, usando contenuti che sembrano autentici ma sono solo pubblicità, notizie che sembrano verificate ma sono aggregate da pesci parlanti, consigli finanziari che sembrano solidi ma ti spingono verso il debito. Ho sbirciato un po’ questi casi, per darvi un’idea generale.
MrBeast o l’illusione che i contenuti paghino
Partiamo dal caso più eclatante. Jimmy Donaldson (MrBeast) è la seconda persona più seguita sui social dopo Cristiano Ronaldo. Impossibile che non abbiate mai visto il suo canale. 453 milioni di iscritti YouTube. Video che costano 3-4 milioni di dollari l’uno. Set elaborati, location esotiche, premi milionari, 200 persone solo per la produzione. Eppure la sua divisione media perde circa 80 milioni di dollari l’anno. Beast Industries, la sua holding, è in rosso da tre anni consecutivi: quasi 60 milioni bruciati solo nel 2024.
Il suo brand di cioccolato (Feastables), invece, fattura 250 milioni e genera 20 milioni di profitto. Le proiezioni per il 2025? 520 milioni di dollari, il doppio. Entro il 2026, si parla di 780 milioni. I video virali sono diventati solo un veicolo di marketing. Il vero business di Mr. Beast è vendere snack da Walmart.
Non è un caso isolato. Logan Paul ha co-fondato Prime (energy drink). Emma Chamberlain ha aperto caffetterie per Chamberlain Coffee. Alex Cooper ha lanciato Unwell (bevande). Tutti guadagnano più con i prodotti fisici che coi contenuti. La formula è sempre la stessa: costruisci audience online, poi vendi qualcosa di concreto al supermercato. L’audience è l’asset, non il contenuto. I video sono cataloghi pubblicitari infiniti.
I numeri dell’illusione: Beast Industries ha raccolto oltre 450 milioni di dollari in finanziamenti negli ultimi 4 anni. Valutazione: 5 miliardi. Perdite continue dal 2022.
La divisione Commerce (cioccolato, snack) genera profitti. La divisione Content (YouTube, Amazon Prime) brucia cassa. Gli investitori scommettono che MrBeast diventi Coca-Cola, non Netflix.
Shopaganda: quando il debito diventa contenuto
Su TikTok esplode il genere “finfluencer”. Giovani che ti insegnano come diventare ricco usando linee di credito, comprando immobili all’asta, trasformandoli in Airbnb, indebitandoti ancora per comprare Porsche da 150.000 dollari (che “non paghi” grazie ai tax write-off). Sam Primm, influencer immobiliare, si vanta di avere 25 milioni di dollari di debiti: “Il debito crea ricchezza massiva per me. È così che la gente normale diventa ricca.” Milioni di follower. Zero disclaimer sul rischio.
Preston Seo del Legacy Investing Show, invece, spiega che la sua Porsche da 150.000 dollari “non la paga” perché deduce le tasse e un Airbnb copre parzialmente le rate. Patricia Millan racconta come ha iniziato al college: ha usato una carta di credito per comprare cibo da rivendere nel campus, poi un’altra carta per comprare un’auto all’asta e rivenderla su Facebook, poi una linea di credito aziendale per comprare un immobile da trasformare in Airbnb. Tutto leveraggio. Tutto debito su debito.
Kelsa Dickey, consulente finanziaria in Arizona, avverte: “Questi schemi promettono ricchezza con poche ore di lavoro a settimana, usando asset appariscenti come auto e proprietà Airbnb. Ma è una bolla economica digitale. La maggior parte delle persone che seguono questi consigli finisce col debito, non con la ricchezza.” Eppure i video continuano a girare. Perché? Perché generano engagement. E l’engagement genera sponsorizzazioni. E le sponsorizzazioni generano soldi veri.
Il contenuto non è più informazione. È shopaganda: pubblicità mascherata da consiglio finanziario, prodotto venduto come lifestyle, debito spacciato per strategia di investimento.
Gli studenti si informano da pesci animati AI
Un sondaggio di Inside Higher Ed e Generation Lab ha intervistato 1.026 studenti universitari in 181 college americani. Risultato: il 75% prende le notizie dai social media. Le fonti principali? TikTok e Instagram. Chi seguono? News Daddy (26 anni, Regno Unito, 1,5 miliardi di like), che aggrega contenuti da giornali, altri influencer e social. E un pesce animato AI ispirato all’anchorman di SpongeBob (1,4 milioni di follower).
Ankit Khanal, studente di informatica alla Syracuse University, dice: “Preferisco i news influencer perché sono connessi con la gente per cui fanno notizie. I giornali tradizionali hanno bias politici troppo forti.” Ha scoperto gli attacchi militari in Medio Oriente dal pesce animato su TikTok. Poi, DOPO ha cercato su Google per verificare. Molti studenti ammettono di sapere che le notizie sui social sono inaccurate. Ma “i giornali sono troppo faticosi da leggere”.
Il problema non è solo la pigrizia. È che l’IA ha invaso TikTok con falsi esperti: ginecologhe generate dall’intelligenza artificiale che danno consigli medici, avatari digitali che ripetono qualsiasi cosa tu gli faccia dire, account che sembrano autentici ma sono automatizzati. Gli studenti non distinguono più il reale dal sintetico. E non ci provano nemmeno, perché “è conveniente”.
Creator economy e cultura del dupe: Amazon, Temu e la morte dell’originalità
Mentre i creator vendono prodotti propri (cioccolato, energy drink, abbigliamento), un altro fenomeno devasta Internet: la cultura del “dupe” (duplicato). Amazon e Temu sono pieni di copie di prodotti famosi. Borse che imitano Chanel, scarpe che copiano Nike, elettronica che replica Apple. Non sono contraffazioni dichiarate: sono “alternative economiche”. Gli influencer le promuovono con video tipo “Dupe da 20 euro invece di 2.000 euro”.
Il risultato? Un ecosistema dove l’originalità non paga. I brand investono milioni in design, ricerca, sviluppo. Le copie costano un decimo, arrivano da fabbriche cinesi in poche settimane, vengono vendute su marketplace che non verificano nulla. Gli influencer guadagnano commissioni. I consumatori risparmiano (o credono di risparmiare). I brand originali perdono fatturato, licenziano designer, smettono di innovare.
La creator economy non ha solo trasformato Internet in un centro commerciale. Ha trasformato il commercio stesso in una corsa al ribasso dove conta solo il prezzo, non la qualità, non l’innovazione, non l’autenticità. Tutto è replicabile, tutto è vendibile, tutto è contenuto. Ti piace quella sedia di design? Puoi pagarla quanto ti pare: originale a prezzo pieno, quella un po’ più “meh” a metà prezzo, quella da dieci euro, tutte (apparentemente) uguali. Ma per tanti va bene così.
Il costo nascosto della creator economy: salute mentale e democrazia
Nel febbraio 2024, New York ha fatto causa a TikTok, Meta, Snap e Google per danni alla salute mentale dei giovani. L’accusa: le piattaforme sono progettate per creare dipendenza, massimizzare il tempo di utilizzo, sfruttare vulnerabilità cognitive degli adolescenti. Le challenge virali uccidono ragazzi. I contenuti pro-anoressia circolano liberamente. Gli algoritmi premiano contenuti estremi, perché generano engagement.
Ma c’è un costo ancora più grande: la disinformazione sistematica. Quando gli studenti prendono notizie da pesci animati AI, quando i consigli finanziari vengono da influencer indebitati fino al collo, quando le fonti verificate perdono credibilità perché “richiedono troppo lavoro”, la democrazia si erode. Non serve censura governativa. Basta che Internet diventi un luogo dove la verità compete con la viralità e perde sempre.
Secondo documenti NATO sulla “cognitive warfare”, oggi “tutti partecipano, per lo più involontariamente, all’elaborazione delle informazioni”. Con il nostro doomscrolling sui social, non siamo più vittime passive: siamo complici inconsapevoli del sistema che ci manipola.
Cosa resta di Internet?
La creator economy è valutata 250 miliardi di dollari nel 2024, con proiezioni di raddoppio a 500 miliardi entro il 2027. Più di 300 milioni di creator attivi nel mondo. Ma la maggior parte guadagna meno di 5.000 euro al mese. Il 35% sta sotto i 1.000 euro. Solo il 13% supera i 5.000. La promessa era: democratizzazione della creatività, chiunque può diventare famoso, i gatekeeper sono morti.
La realtà è: nella creator economy, pochi creator guadagnano sul serio vendendo prodotti fisici (MrBeast col cioccolato). Alcuni guadagnano insegnando ad altri creator come guadagnare (corsi online, consulenze). La maggior parte non guadagna nulla, o guadagna così poco da dover continuare a lavorare altrove.
E intanto Internet è diventato un posto dove tutto cerca di venderti qualcosa: i video, le notizie, i consigli finanziari, le amicizie, le relazioni.
C’era un tempo in cui Internet non cercava costantemente di venderci cose. Certo, c’era della pubblicità, ma un tempo i contenuti esistevano per essere letti, visti, discussi.
Non per farti comprare barrette di cioccolato o indebitarti per un Airbnb. Quel tempo è finito.
Quando e come ci cambierà la vita
Nei prossimi 3-5 anni, la creator economy si consoliderà ulteriormente. Avremo più brand di creator (non solo cioccolato: cereali, bevande, wellness, videogiochi). Più consolidamento (pochi giganti, molti creator marginali). Più IA nei contenuti (avatar digitali, influencer sintetici). Piattaforme che spingeranno sempre più verso il commercio diretto (TikTok Shop, Instagram Shopping).
Internet diventerà ancor più indistinguibile da un centro commerciale. Vogliamo questo futuro? E se no, cosa possiamo fare per cambiarlo?
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