Avete mai sentito parlare dei Velvet Sundown? Probabilmente sì, se siete tra quel milione di persone che li ascolta ogni mese su Spotify. Quattro ragazzi californiani che mixano psichedelica anni ’70 con indie contemporaneo, giusto? No. Sbagliato. Gabe Farrow, Lennie West, Milo Rains e Orion Del Mar non hanno mai messo piede in California.
Non hanno mai imbracciato una chitarra. Non respirano, non sognano, non esistono. Sono il prodotto di un algoritmo chiamato Suno AI, e il loro successo sta mandando in frantumi tutte le certezze che avevamo sulla musica artificiale.
Velvet Sundown, tutti i numeri di un fenomeno impossibile
I Velvet Sundown sono apparsi dal nulla a giugno 2025. In meno di un mese hanno rilasciato due album completi, “Floating on Echoes” e “Dust and Silence”, conquistando oltre 900mila ascoltatori mensili su Spotify. Il loro brano più popolare, “Dust on the Wind”, ha superato il mezzo milione di stream. Numeri che farebbero invidia a band con anni di gavetta alle spalle.
Ma dietro questo successo meteorico si nasconde una verità scomoda: non c’è nessuna band. Lo ha confermato Deezer, l’unica piattaforma di streaming che utilizza tecnologie di rilevamento AI:
“Alcuni brani di questo album potrebbero essere stati creati utilizzando l’intelligenza artificiale”.
In realtà, è il 100% del catalogo ad essere artificiale.
L’ammissione che cambia tutto
Dopo settimane di mistero e speculazioni, i Velvet Sundown hanno finalmente confessato. Nella loro biografia aggiornata su Spotify si leggono parole che suonano come una provocazione: “The Velvet Sundown è un progetto musicale sintetico guidato dalla direzione creativa umana, composto, cantato e visualizzato con il supporto dell’intelligenza artificiale. Non è un trucco, è uno specchio. Una provocazione artistica continua progettata per sfidare i confini della paternità, dell’identità e del futuro della musica stessa nell’era dell’AI”.
Il software utilizzato è Suno, una piattaforma che permette di creare brani completi partendo da semplici descrizioni testuali. Certo, mettendoci un po’ di tempo in più vengono fuori anche brani carucci: io stesso, qualche mese fa ho dato voce ad una cantante e ad un brano (“Display”, potete ascoltarlo qui) che punta il dito sulle parafilie dei social network che rovinano il rapporto delle persone con il loro aspetto.
Alla fine, però, anche senza esperienza, basta digitare “canzone psichedelica anni ’70 con atmosfere malinconiche” e in pochi minuti l’algoritmo sforna melodie, arrangiamenti e persino voci umane sintetiche.
L’inganno nell’inganno
La storia si è complicata ulteriormente quando un presunto portavoce, tale Andrew Frelon, ha rilasciato un’intervista a Rolling Stone dichiarando di essere dietro al progetto. Peccato che anche lui fosse un fake: un esperto canadese di sicurezza digitale che ha ammesso di aver mentito per “testare i giornalisti” e creare ulteriore confusione mediatica.
Questa matrioska di inganni ha reso il caso ancora più emblematico: in un mondo dove distinguere il vero dal falso diventa sempre più difficile, persino i falsi hanno un loro falso a corredo. Ma sarebbe successo, era solo questione di tempo.
Gli algoritmi che non sanno distinguere
Glenn McDonald, ex “alchimista dei dati” di Spotify, ha spiegato a Rolling Stone come i Velvet Sundown siano riusciti nell’impresa. La piattaforma si sta allontanando da algoritmi basati sull’ascolto umano verso sistemi AI che “possono selezionare canzoni per le raccomandazioni basandosi sulle caratteristiche del loro audio”.
L’analisi di Music Ally ha rivelato un dettaglio inquietante: 25 delle 30 playlist principali dove compaiono i Velvet Sundown provengono da soli quattro account misteriosì. La playlist “Vietnam War Music”, ad esempio, ha oltre 600mila follower ma è gestita da un profilo con meno di 3mila seguaci.

Cosa ci dice questo esperimento
Il successo dei Velvet Sundown, come detto, non è casuale. Le loro canzoni pescano a piene mani da nostalgie preconfezionate: titoli come “Dust on the Wind” che richiamano i Kansas, atmosfere psichedeliche che evocano i Led Zeppelin, testi generici che parlano di “fumo nel cielo” e “polvere nel vento”. È musica progettata per piacere, non per esprimere.
Come ho raccontato in questo articolo, non è la prima volta che l’AI musicale raggiunge numeri impressionanti. Ma i Velvet Sundown rappresentano qualcosa di diverso: la prima band completamente artificiale a costruire un seguito di massa senza mai rivelare la propria natura.
Velvet Sundown, avanti il prosismo
Questo caso pone domande fondamentali sull’industria musicale. Se migliaia di persone non riescono a distinguere la musica umana da quella artificiale, quale valore ha ancora l’autenticità? Come cambierà il mercato quando creare un album costerà 10 dollari e cinque minuti di tempo?
Rick Beato, produttore musicale con oltre 5 milioni di seguaci su YouTube, ha analizzato i brani dei Velvet Sundown identificando “artefatti” tipici dell’AI negli arrangiamenti. Ma per l’ascoltatore medio, queste imperfezioni tecniche passano inosservate.
I Velvet Sundown hanno dimostrato che nell’era dello streaming conta più apparire nelle playlist giuste che esistere davvero. Il loro esperimento si conclude con una verità amara: abbiamo creato un sistema dove le macchine non solo possono imitare la creatività umana, ma possono anche avere più successo degli artisti in carne e ossa.
La provocazione è riuscita. Ora tocca a noi decidere che tipo di futuro musicale vogliamo costruire.