Nel 1982 avevo 7 anni, e Blade Runner immaginava il 2019 con auto volanti e colonie extraterrestri. Nel 2019 avevamo Uber e Airbnb. La distanza tra ciò che sognavamo e ciò che abbiamo ottenuto racconta la storia della nostra epoca: una società che ha perso ogni slancio e ogni visione del futuro.
I nostri nonni progettavano città sottomarine e viaggi interstellari, noi discutiamo di sostenibilità energetica e smart working. Non è che non innoviamo più, è che non osiamo più sognare in grande. Il futuro si è ristretto al prossimo aggiornamento, alla prossima startup, al prossimo giro di licenziamenti. Come siamo arrivati a questo punto?

Il crollo dell’ottimismo futuristico
Una ricerca internazionale sui giovani di quattro Paesi ha rivelato già tempo fa un dato allarmante: la maggior parte dei ragazzi tra 18 e 30 anni non riesce più a immaginare un futuro migliore del presente. Italia, Germania, Polonia e Russia mostrano lo stesso pattern: speranza nel breve termine, pessimismo strutturale per il lungo periodo. Questo non è semplice “cinismo giovanile”: è il sintomo di una crisi più profonda.
I giovani si sentono intrappolati in un presente senza prospettive. La fiducia nel raggiungimento di obiettivi personali rimane alta, ma l’idea di un progresso collettivo è svanita. Dove una volta c’erano visioni di società post-scarsità, oggi troviamo scenari di guerra, collasso climatico e controllo digitale.
Il sociologo Karl Mannheim aveva previsto questo fenomeno già decenni fa, quando scriveva che la completa sparizione dell’elemento utopico avrebbe portato l’uomo a una “condizione statica in cui non è più che una cosa”. Abbiamo sostituito l’utopia con l’efficienza, la visione del futuro con l’ottimizzazione, il sogno con l’algoritmo.
La grande delusione delle Big Tech e della visione del futuro
Per decenni, Silicon Valley ha incarnato l’ultima frontiera dell’ottimismo tecnologico. Mark Zuckerberg prometteva di connettere il mondo, Elon Musk di colonizzare Marte, Jeff Bezos di sconfiggere l’invecchiamento. Ma cosa è rimasto di queste visioni? Come ho già analizzato in un precedente articolo sulla caduta degli dei tech, dietro le promesse utopiche si nascondevano progetti di controllo totalitario.
Il Metaverso di Meta ha bruciato 9,4 miliardi di dollari trasformandosi in un deserto virtuale. L’intelligenza artificiale di OpenAI, invece di liberarci dal lavoro ripetitivo, sta sostituendo creativi e giornalisti. Le criptovalute dovevano democratizzare la finanza, ma hanno creato bolle speculative e truffe miliardarie. Il car sharing doveva ridurre il traffico, ma (per il momento, certo) ha aumentato i veicoli in circolazione.
Quasi ogni promessa si è trasformata nel suo contrario. I social media che dovevano unirci ci hanno polarizzato. Le piattaforme che dovevano democratizzare l’informazione hanno creato bolle di disinformazione. La tecnologia che doveva liberarci ci ha resi più dipendenti, controllati, sorvegliati. Non è un caso che l’Oxford English Dictionary registri un uso 300 volte maggiore della parola “distopia” rispetto a “utopia” nelle pubblicazioni contemporanee.
La ricerca di futuri alternativi e forse più promettenti suggerisce la sensazione che il futuro desiderato o atteso non si sia materializzato. Questo crea una dissociazione che si manifesta come nostalgia per visioni del futuro mai realizzate.
Dalla protopia al pessimismo strutturale nella visione del futuro
Il concetto di Protopia, che ho già esplorato su Futuro Prossimo, è un tentativo di superare la dicotomia utopia-distopia. L’idea era semplice: invece di sognare paradisi impossibili o temere inferni inevitabili, dovremmo puntare su miglioramenti graduali ma costanti. Tuttavia, anche questa visione moderata fatica a prendere piede in una società dominata dal pensiero a breve termine.
Come evidenzia uno studio ANSA su 55 milioni di conversazioni social italiane, la popolazione si divide in quattro categorie: confusi, critici, spaventati e speranzosi. Ma anche i “speranzosi” basano le loro aspettative su miglioramenti individuali, non collettivi. Il futuro è diventato una questione privata, non più un progetto di specie.
Questo fenomeno non è solo italiano. Il Retrofuturismo, movimento artistico che guarda nostalgicamente alle visioni del futuro del passato, testimonia una delusione planetaria. La ricerca di alternative al presente rivela che il futuro promesso dalla modernità ha deluso le aspettative.

Il paradosso della nostra epoca: abbiamo più strumenti che mai per immaginare e costruire il futuro (computer quantistici, intelligenza artificiale, biotecnologie), ma abbiamo perso la capacità di sognarlo. La tecnologia avanza, ma la visione si restringe.
Il ruolo della fantascienza nella perdita di visione del futuro
La fantascienza, che per un secolo ha alimentato l’immaginario collettivo sul futuro, si è progressivamente concentrata su scenari distopici. Come analizza Marco Mogetta su Bibliomanie, dagli anni ’80 il genere ha smesso di immaginare società migliori per concentrarsi su mondi post-apocalittici, sorveglianza totale e collassi ambientali.
George Orwell, Aldous Huxley e Philip K. Dick hanno creato archetipi narrativi così potenti da condizionare la percezione del progresso tecnologico. Ogni innovazione viene automaticamente filtrata attraverso le lenti di 1984, Il Mondo Nuovo o Minority Report. L’intelligenza artificiale evoca HAL 9000, i social network ricordano il Grande Fratello, la realtà virtuale sembra la Matrix.
Il Futurismo storico degli anni ’10 e ’20 del Novecento, come documenta La Bottega del Barbieri, immaginava un futuro di velocità, macchine e città volanti. Filippo Tommaso Marinetti scriveva di cyborg e viaggi interplanetari già nel 1909 con Mafarka il futurista. Ma quella spinta propulsiva si è esaurita nella realtà delle due guerre mondiali e nell’incubo nucleare.
Oggi la futurologia ha sostituito (con maggiore esperienza e competenza, ovviamente) la fantascienza nell’immaginare scenari possibili, ma come riporta Wikipedia, anche questa disciplina si concentra sovente sulla gestione dei rischi che sulla creazione di opportunità. Il futuro è diventato un problema da risolvere, non un orizzonte da esplorare.
Forse la domanda non è “perché abbiamo perso la visione del futuro”, ma “come possiamo riaverla”. Realtà come Forward To e L’Italian Institute for the Future stanno lavorando proprio su questo: ricostruire la capacità collettiva di immaginare futuri desiderabili. Perché un mondo che non sa più sognare è un mondo che ha già smesso di vivere.
Il primo passo è riconoscere che il futuro non è qualcosa che ci accade, ma qualcosa che costruiamo. Insieme.