Yorgos Lanthimos non fa film facili. Lo sappiamo. Ma Bugonia è diverso. È lineare, claustrofobico, costruito come un thriller che però non ti dà la soddisfazione della verità. Emma Stone è Michelle Fuller, CEO di un’azienda farmaceutica. Jesse Plemons è Teddy, apicoltore paranoico che la rapisce convinto sia un’aliena. Il film si svolge quasi tutto in uno scantinato.
Tre giorni. Un’eclissi lunare. E una domanda che non smette mai di cambiare forma: chi dei due mente?
Quando la verità dipende dall’angolazione
Lanthimos fa una cosa semplice ma devastante. Ogni volta che Teddy interroga Michelle, lo riprende dal basso. Lei dall’alto. Lui sembra minaccioso. Lei perseguitata. È La passione di Giovanna d’Arco (Falconetti, 1928) tradotta in chiave contemporanea. Perché usare il linguaggio visivo del martirio su una CEO che stritola dipendenti? Perché in Bugonia nessuno è davvero innocente. La nostra capacità di distinguere realtà e finzione è scarsa, molto più di quanto crediamo. E quando la percezione diventa l’unica bussola, tutto può essere vero. O falso.
Il film è il remake di Save the Green Planet!, cult sudcoreano del 2003. Ma dove l’originale giocava sull’estetica grottesca e sull’eccesso, Lanthimos toglie. Strappa via ogni orpello. Resta lo scheletro: una stanza, due persone, una teoria della cospirazione che potrebbe essere vera, oppure no.
Il regista greco ha fatto carriera smontando certezze. Qui va oltre. Ti costringe a scegliere, ma non ti dà gli strumenti per farlo. Devi vedertela da solo, possibilmente senza AI e senza Google (le due cose, poi, convergono).
Curiosità: 4 parole per una colonna sonora
La cosa più assurda? Jerskin Fendrix, il compositore (quello di Povere Creature!, nominato all’Oscar), ha scritto l’intera colonna sonora con un’orchestra da novanta elementi usando solo quattro parole. Api. Scantinato. Astronave. Emma-calva. Niente sceneggiatura, niente immagini, niente contesto. Lanthimos gli ha dato quattro coordinate e gli ha detto: vai. Il risultato è una partitura che oscilla tra il bombast e il cameristico, come se Star Wars incontrasse Kubrick in uno scantinato che puzza di muffa.
Fendrix ha dichiarato che non avrebbe mai composto quella musica se avesse letto la sceneggiatura. È un metodo che ribalta tutto. Invece di illustrare le emozioni del film, la musica le anticipa, le contraddice, le amplifica in modo casuale.
È tipo un collega che commenta una riunione senza aver letto l’ordine del giorno: a volte azzecca, altre volte spara fuori bersaglio. Ma funziona.
Questa scelta non è solo un vezzo stilistico. È il cuore del film. Bugonia si costruisce sull’ambiguità, e avere una colonna sonora che non “sa” cosa sta accompagnando amplifica il disorientamento. Non c’è conforto. Non c’è una guida emotiva. Sei solo, nella stanza con i protagonisti.
Teorie del complotto e intelligenza artificiale
Teddy è un cospirazionista. Ascolta podcast, raccoglie prove, connette punti che non esistono. Come i testimoni che ogni tot mesi bussano al Congresso americano per parlare di UAP, anche lui ha costruito una narrazione coerente partendo da indizi sparsi. Michelle, invece, ha fatto esperimenti su sua madre. Le api stanno morendo. Perfino io, mentre vi scrivo questa recensione, ho un pugno allo stomaco.
Il film esce in un momento storico dove l’intelligenza artificiale può smontare teorie del complotto con conversazioni personalizzate. Ma Bugonia suggerisce qualcosa di più inquietante: forse non sono le prove che mancano ai cospirazionisti. Forse è che ognuno di noi costruisce la sua realtà selezionando i fatti che confermano quello che vuole credere.
Michelle è una CEO spietata che ha rovinato vite per profitto. Teddy è un uomo devastato dal dolore che cerca un colpevole cosmico. Entrambi hanno ragione. Entrambi sbagliano.
Will Tracy, sceneggiatore di Succession e The Menu, ha scritto Bugonia come un dibattito senza vincitori. Ogni scena è un match dove nessuno mette ko l’altro. Michelle smonta le teorie di Teddy con logica fredda. Teddy risponde con prove che sembrano deliri ma hanno una loro coerenza interna. È un ping pong estenuante. E più vai avanti, più ti accorgi che stai tifando solo per chi ti assomiglia di più.
Bugonia, il metodo Lanthimos applicato alla paranoia
Lanthimos ha sempre lavorato sull’assurdo. In The Lobster i single venivano trasformati in animali. In Povere creature! una donna rinasceva con il cervello di un neonato. Qui l’assurdo è sotterraneo. Non ci sono effetti speciali. Non c’è fantascienza visibile. C’è solo il dubbio che mina tutto. Un po’ come quelle persone che si convincono che ChatGPT abbia una coscienza dopo averci parlato per settimane, Teddy ha costruito una realtà alternativa così dettagliata che è impossibile smontarla dall’esterno.
Il regista ha girato quasi tutto il film in VistaVision 35mm, un formato che non si usava dal 1961. La pellicola cattura dettagli che il digitale perde.
Ogni poro di Plemons. Ogni piega della tuta di Stone. La texture claustrofobica dello scantinato. Non è nostalgia. È precisione. Quando la verità è ambigua, i dettagli diventano ossessione.
Robbie Ryan, direttore della fotografia (quarta collaborazione con Lanthimos), ha dichiarato che Bugonia è il film che ha usato più VistaVision di qualsiasi altro negli ultimi sessant’anni. Perché? Perché il formato costringe a rallentare. Ogni inquadratura costa. Ogni frame è pensato. In un’epoca dove il digitale permette di girare ore di girato quasi gratis, tornare alla pellicola è una dichiarazione d’intenti: qui ogni secondo conta. Vedrete, questa cosa diventerà una moda.
Emma Stone e il rischio della seconda visione
Emma Stone ha detto che per la prima volta ha pensato alla sua performance in funzione di una seconda visione. Perché quando sai come finisce, ogni battito di ciglia cambia senso. Ogni esitazione. Ogni sguardo. Lanthimos le inquadra dall’alto, ma lei non recita da vittima. Ha la compostezza di chi controlla. O forse la freddezza di chi non è umano. Dipende da quando metti pausa.
Jesse Plemons è perfetto. Sudato, sporco, convinto. Ha la faccia di chi ha studiato troppo e dormito troppo poco. È tipo quegli utenti di Reddit che cascano negli abissi spirituali dopo aver parlato con un chatbot per settimane. La differenza è che Teddy ha un piano. Ha addestrato il cugino Don (Aidan Delbis, alla prima apparizione cinematografica). Ha preparato torture psicologiche. Ha una deadline: l’eclissi lunare. Tre giorni per far confessare un’aliena. O per confermare un delirio.
Perché Bugonia non risolve nulla, o forse si
Bugonia finisce, ma non chiude. Lanthimos ti dà delle risposte, ma sono le risposte sbagliate. O quelle giuste interpretate male. O forse sono giuste ma non come pensavi. Il film ha un’87% su Rotten Tomatoes e un 68 su Metacritic. Non è un capolavoro unanime come Povere Creature!. È troppo cupo, troppo scomodo. Ma è il tipo di film che resta. Perché non ti lascia andare.
Ari Aster (regista di Hereditary e Midsommar) è produttore. E si sente. C’è la sua ossessione per il trauma familiare travestito da altro. Teddy non cerca alieni. Cerca qualcuno da incolpare per la morte di sua madre. Michelle non difende la sua azienda. Difende l’idea che tutto ciò che ha fatto sia giustificabile. Entrambi si aggrappano alle loro narrazioni perché l’alternativa è troppo dolorosa.
Il titolo, Bugonia, è una parola greca che descrive un antico rito: si credeva che le api nascessero spontaneamente dalle carcasse di animali morti. Vita dalla morte. Trasformazione. O forse solo un’illusione. Un modo di dare senso al caos osservando pattern che non esistono. Come Teddy che vede alieni dove ci sono solo CEO spietate. Come Michelle che vede irrazionalità dove c’è dolore. Come me che guardo il film e sono convinto di averlo capito. E anche come voi.
Bugonia è appena arrivato nelle sale, e difficilmente passerà inosservato. È il tipo di film che genera discussioni infinite. Perché alla fine, la domanda non è “chi ha ragione?”. È “cosa ci fa credere di averla?”.
E questa, in un’epoca dove distinguere realtà e finzione diventa sempre più difficile, è la domanda che conta.