Geoffrey Hinton, il padrino dell’intelligenza artificiale, quando gli chiedono come distribuire equamente i guadagni dell’economia AI risponde con una parola sola: “Socialismo.” Sam Altman, CEO di OpenAI, è più cauto ma la sostanza non cambia: reddito di base universale, soldi a tutti, nessuna domanda. Elon Musk va oltre: “Non avremo scelta.”
Il problema è che i numeri raccontano un’altra storia. L’economia AI promette trilioni di dollari di crescita, ma nel frattempo sta già sostituendo migliaia di lavoratori. E la disoccupazione potrebbe esplodere prima che quei trilioni si materializzino. È un po’ come promettere il dessert a chi sta già morendo di fame.
Economia AI: i numeri che non tornano
Intendiamoci: le previsioni sull’economia AI sono tutte ottimiste. Goldman Sachs stima un aumento del PIL globale del 7%, circa 7 trilioni di dollari in dieci anni. PwC è ancora più ottimista: fino al 15% di crescita entro il 2035 se tutto va bene. IDC parla di 19,9 trilioni di dollari di impatto economico cumulativo entro il 2030. Numeri che farebbero impallidire la rivoluzione industriale.
Ma c’è un dettaglio che complica il quadro. Daron Acemoglu, economista del MIT e premio Nobel 2024, ha fatto i conti con più cautela. Secondo la sua analisi, solo il 5% dei compiti lavorativi potrà essere profittevolmente automatizzato nei prossimi dieci anni. Il risultato? Una crescita del PIL americano di appena l’1,1% nello stesso periodo. Niente miracoli, insomma. Crescita modesta, non rivoluzionaria.
Il vero problema, piuttosto, non sono le stime contrastanti. È il timing. L’intelligenza artificiale potrebbe eliminare milioni di posti di lavoro prima di generare la ricchezza necessaria a sostituirli. Il Fondo Monetario Internazionale calcola che il 40% dell’occupazione globale è esposta all’economia AI. Nei paesi avanzati la percentuale sale al 60%. Nei mercati emergenti scende al 40%, nei paesi a basso reddito scende ulteriormente al 26%.

Reddito di base universale: soluzione o illusione?
Di fronte a questo scenario, il reddito di base universale sembra l’unica via d’uscita. L’idea è semplice: dare a tutti una somma fissa mensile, senza condizioni. Niente burocrazia, niente ricatti occupazionali. In teoria, l’economia AI genera abbastanza ricchezza da permetterselo. In pratica, i conti sono più complessi.
Negli Stati Uniti, ad esempio, un reddito di base di 10mila dollari l’anno (una bazzecola: un cassiere al McDonald’s ne guadagna 25mila) costerebbe 3 trilioni, circa tre quarti del budget federale. Elon Musk immagina qualcosa di più ambizioso: “Ci sarà un reddito alto universale, non solo di base. Tutti avranno la migliore assistenza medica, cibo, casa, trasporti.” Abbondanza sostenibile, la chiama. Il problema è capire come finanziarla.
La proposta classica prevede di tassare i profitti generati dall’economia AI. Ha senso: se il capitale fa il lavoro che prima facevano gli umani, il capitale va tassato di più. Ma questo presuppone due cose. Prima: che i politici accettino di aumentare le tasse sulle corporation proprio mentre l’intelligenza artificiale promette crescita. Seconda: che l’AI generi abbastanza profitti prima che la disoccupazione esploda.
Il più grande esperimento sul reddito di base è stato condotto tra il 2020 e il 2023 da OpenResearch, organizzazione fondata da Sam Altman. Mille famiglie a basso reddito hanno ricevuto 1.000 dollari al mese senza condizioni. I risultati? Le persone hanno usato i soldi principalmente per bisogni primari, migliorando stabilità finanziaria e autonomia. Ma gli effetti complessivi sono stati limitati. Nessun miglioramento significativo nella salute fisica o nei risultati accademici. Il denaro aiuta, ma non risolve tutto.
Colletti bianchi: i primi a cadere nell’economia AI
C’è un’altra complicazione. L’intelligenza artificiale non colpisce dove ci aspettavamo. Goldman Sachs prevede che il 6-7% della forza lavoro sarà sostituita dall’AI. Portando la disoccupazione intorno al 12%, più alta della Grande Recessione del 2008. Ma non sono i lavori manuali a sparire per primi. Sono quelli dei colletti bianchi.
Programmatori, assistenti legali, contabili, analisti finanziari: professioni che fino a ieri sembravano al sicuro stanno crollando. Dario Amodei di Anthropic stima che metà dei lavori entry-level per colletti bianchi potrebbe sparire nei prossimi cinque anni. Microsoft ha licenziato 6mila lavoratori, il 3% della forza lavoro. Il 30% del codice dell’azienda è già scritto dall’intelligenza artificiale. IBM ha tagliato 8mila posizioni nelle risorse umane, sostituite da AskHR, un chatbot che gestisce 11,5 milioni di interazioni all’anno.
Il paradosso è che questi lavoratori sono cruciali per l’economia AI. Negli Stati Uniti, il 10% dei percettori di reddito più alto rappresenta quasi metà della spesa totale dei consumatori. Se colpisci questa fascia, l’impatto sull’economia complessiva è enorme. Un reddito di base di 10mila dollari non rimpiazza nemmeno lontanamente gli stipendi da 100mila dollari che questi professionisti guadagnavano.
Europa e Asia: l’economia AI è senza rete di sicurezza
Se negli Stati Uniti il dibattito sul reddito di base è acceso, in Europa e Asia la situazione è ancora più complessa. L’Istat prevede per l’Italia una crescita del PIL dello 0,6% nel 2025 e dello 0,8% nel 2026. Numeri modesti, trainati quasi interamente dalla domanda interna. L’economia AI potrebbe dare una spinta, ma il paese parte da una base fragile.
In Italia, secondo il Politecnico di Milano, ci saranno 3,7 milioni di lavoratori da remoto entro fine 2025. L’integrazione tra intelligenza artificiale e lavoro a distanza potrebbe migliorare produttività e benessere. Ma serve infrastruttura digitale, formazione, investimenti. Tutte cose che richiedono tempo e denaro.
In Asia la situazione è ancora diversa. Il Fondo Monetario Internazionale nota che molti paesi emergenti non hanno l’infrastruttura o la forza lavoro qualificata per sfruttare i benefici dell’economia AI. Rischiano di rimanere indietro, ampliando il divario con le nazioni avanzate. L’intelligenza artificiale potrebbe peggiorare la disuguaglianza tra paesi, non solo al loro interno.

Il paradosso della crescita senza lavoratori
Martin Ford, futurista e autore di Il dominio dei robot, ha una teoria che suona popolare. Per far funzionare l’economia AI, bisogna mettere potere d’acquisto nelle mani dei consumatori. Non importa se i prodotti sono fatti dalle macchine. Le persone devono avere soldi per comprarli. Altrimenti, a chi vendi?
Il rischio è una spirale al ribasso. L’intelligenza artificiale sostituisce i lavoratori, i lavoratori perdono reddito, i consumi crollano, l’economia rallenta. E questo frena gli investimenti in AI, impedendo di raggiungere quella superintelligenza che dovrebbe generare abbondanza per tutti. Un circolo vizioso dove nessuno vince.
Alcuni economisti, come il già citato Daron Acemoglu, sono scettici sul reddito di base universale. Sostengono che tassare i redditi scoraggia lavoro e investimenti. E che dare trasferimenti alle stesse persone da cui raccogli le tasse è inefficiente. Preferiscono politiche mirate: sostegno a chi perde il lavoro, formazione, incentivi per nuove occupazioni.
Ma c’è un controargomento. L’economia AI potrebbe muoversi troppo velocemente per politiche mirate. Quando decine di milioni di persone perdono il lavoro in pochi anni, serve una risposta rapida e universale. Il reddito di base ha un vantaggio: è semplice. Niente burocrazia, niente esclusioni. Funziona subito. Allora che si fa?
Oltre il denaro: il problema del significato
Elon Musk solleva una questione che va oltre l’economia AI. In uno scenario benevolo, dice, probabilmente nessuno di noi avrà un lavoro. Ci sarà abbondanza, nessuna scarsità di beni e servizi. Ma la domanda diventa: se un computer e i robot possono fare tutto meglio di te, la tua vita ha un senso?
È una domanda filosofica, ma con conseguenze pratiche. Il lavoro non è solo fonte di reddito. È identità, scopo, struttura sociale. Toglilo a miliardi di persone e cosa rimane? Il reddito di base risolve il problema materiale, ma non quello esistenziale.
Alcune ricerche suggeriscono che l’intelligenza artificiale creerà nuovi lavori per gli umani. David Autor, economista del MIT, nota che il 60% delle occupazioni attuali non esisteva nel 1940. L’85% della crescita occupazionale degli ultimi 80 anni è spiegata dalla tecnologia che ha creato nuove posizioni.
Forse succederà di nuovo. O forse no. L’economia AI è diversa dalle rivoluzioni tecnologiche precedenti. Non automatizza compiti fisici ripetitivi. Automatizza il pensiero, la creatività, il giudizio. Se l’intelligenza artificiale può fare meglio di noi ciò che ci rende umani, quali nuovi lavori rimarranno?
La finestra si sta chiudendo
Il dibattito sul reddito di base universale nell’economia AI non è accademico. È urgente. L’Organizzazione Mondiale del Commercio stima che l’intelligenza artificiale potrebbe aumentare il commercio globale del 40% entro il 2040. Ma per arrivarci, bisogna attraversare la transizione senza distruggere il tessuto sociale.
Il reddito di base non è una soluzione perfetta. Costa troppo, potrebbe non bastare, non risolve la questione del significato. Ma potrebbe essere l’unica risposta abbastanza veloce e universale per evitare che milioni di persone cadano in povertà mentre aspettiamo che l’economia AI generi abbondanza.
La vera domanda non è se il reddito di base universale funzionerà. È se avremo il coraggio politico di provarlo prima che sia troppo tardi. Perché l’alternativa, dice Martin Ford, potrebbe essere una recessione innescata dalla disoccupazione di massa. E quella recessione frenerebbe proprio lo sviluppo dell’intelligenza artificiale che dovrebbe salvarci.
L’economia AI promette un futuro di abbondanza. Ma tra qui e là c’è un deserto da attraversare. E finora, nessuno ha portato abbastanza acqua.