Entro il 2045, gli incidenti stradali (che oggi provocano oltre 1 milione di morti all’anno) saranno praticamente scomparsi. Negli Stati Uniti, per esempio, si passerà da 40.000 morti all’anno a meno di 250: quasi tutti nelle zone rurali o remote dove circoleranno ancora le ultime auto con guidatore umano. I bambini nati nel 2025 cresceranno in un mondo senza incidenti, dove i crash sono leggende del passato, errori di un’epoca primitiva in cui gli esseri umani controllavano veicoli da una tonnellata a 100 km/h mentre magari sbirciavano lo smartphone (altro oggetto che forse, per il 2045 vedremo molto meno o per niente).
La vera rivoluzione, però, non sarà tecnologica: sarà psicologica. La generazione nata nel 2025 penserà in modo radicalmente diverso sul rischio, sulla responsabilità e su cosa la società deve garantire ai suoi cittadini.
Senza incidenti: quando l’errore umano sparisce dalla strada
Il cambiamento è già in atto. I veicoli autonomi eliminano il fattore umano, quella variabile imprevedibile che per decenni è stata la causa del 94% degli incidenti stradali. Niente più colpi di sonno al volante, niente più guida in stato di ebbrezza, niente più distrazioni per un messaggio che sembrava urgente. Le macchine non si stancano, non litigano con il passeggero, non decidono che possono farcela a passare col giallo. Secondo uno studio della National Highway Traffic Safety Administration, la guida automatizzata di livello 5 potrebbe ridurre gli incidenti del 99% entro i prossimi quindici anni.
In Italia, dove secondo i dati ISTAT si registrano ancora oltre 3.000 morti all’anno sulle strade, il passaggio ai veicoli autonomi potrebbe far crollare questo numero sotto le 50 unità. Come abbiamo raccontato più volte qui su Futuro Prossimo, la tecnologia è già pronta: sensori LiDAR, intelligenza artificiale predittiva, comunicazione veicolo-veicolo in tempo reale. Manca solo la diffusione su larga scala. E quella arriverà prima di quanto pensiamo.
La transizione verso i veicoli autonomi non sarà immediata, ma progressiva. Entro il 2035, le auto senza conducente “aggrediranno” le strade. Ed entro il 2045, rappresenteranno il 70% del parco circolante nelle città occidentali. Già nel 2040, in diversi posti del mondo guidare manualmente sembrerà un hobby da nostalgici, come andare a cavallo oggi. I pochi incidenti rimasti coinvolgeranno quasi sempre vecchie auto a controllo umano, reliquie di un’epoca che si rifiutava di finire.

La psicologia di chi non conosce il pericolo casuale
Qui comincia la parte interessante. Perché una generazione che cresce senza incidenti non si limita a guidare diversamente: pensa diversamente. Gli psicologi stanno già studiando cosa significa per lo sviluppo cognitivo non essere mai esposti alla tragedia casuale. I bambini del 2025 non vedranno mai un genitore irrigidirsi quando un’altra auto sbanda troppo vicino. Non sentiranno mai la sirena di un’ambulanza che corre verso un incrocio maledetto. Non passeranno mai davanti a una croce bianca legata a un guardrail.
Per loro, la morte per “sfortuna” non sarà normale. Sarà un’anomalia, un difetto di sistema, qualcosa che non dovrebbe accadere in una società avanzata. E quando pensi così, tutto cambia. Se le auto possono diventare sicure al 99,4%, perché gli ospedali non possono eliminare gli errori chirurgici? Perché i cantieri edili continuano ad avere morti sul lavoro? Perché le fabbriche esplodono ancora?
La generazione senza incidenti pretenderà che ogni pericolo prevedibile venga eliminato. Non come auspicio: come obbligo morale.
Il fatalismo, quella rassegnazione di fronte al caso, scomparirà. Al suo posto arriverà un’aspettativa quasi religiosa (magari anche patologica in certe forme, ma ne riparliamo) di perfezione sistemica. E le aziende, i governi, le istituzioni che non riusciranno a garantirla verranno viste come negligenti. Un po’ come oggi guardiamo alle fabbriche vittoriane che mandavano i bambini nelle miniere senza protezioni: tecnicamente possibile, moralmente inaccettabile.
Cosa succede a un mondo senza incidenti
Le conseguenze pratiche sono enormi. Le compagnie assicurative perderanno il loro modello di business principale. L’assicurazione auto RC, che oggi muove miliardi, diventerà obsoleta. Alcune si reinventeranno come aziende di analisi predittiva del rischio. Qualcuna sparirà. I pronto soccorso, che oggi dedicano gran parte delle risorse ai traumi da incidente stradale, si riorganizzeranno completamente. Meno sale operatorie per politraumi, più diagnostica preventiva.
Anche le città cambieranno forma. Se non ci sono più incidenti, non servono più carreggiate larghe tre metri per ogni corsia. Non servono barriere di sicurezza ipertrofiche. Non servono incroci progettati per assorbire l’impatto di auto che viaggiano a 80 all’ora. Le strade potranno restringersi, gli spazi verdi espandersi, i marciapiedi allargarsi. L’urbanistica del 2040 assumerà che nessuno si schianta contro nessuno. E progetterà di conseguenza.
Anche la cultura del lutto cambierà. I cimiteri perderanno una delle loro categorie più dolorose: le tombe di chi è morto giovane in un incidente. Le famiglie non dovranno più convivere con quel senso di assurdità totale, quel “è successo e basta” che accompagna ogni morte stradale. Senza incidenti, quel tipo di perdita improvvisa diventerà più raro. E, certo, quando accadrà sembrerà ancora più inaccettabile. Perché se il sistema funziona al 99,4%, quel restante 0,6% sembrerà un tradimento.
Il paradosso della sicurezza assoluta
Come sempre, c’è un lato oscuro da considerare. Le generazioni precedenti guarderanno indietro con una nostalgia strana, quasi imbarazzante. Ricorderanno quando la vita sembrava più “vera”, quando il rischio dava peso alle scelte quotidiane. Quando salire in auto significava accettare un minuscolo ma reale margine di pericolo. I giovani del 2045, ovviamente, troveranno questo atteggiamento incomprensibile. Per loro, permettere che le persone muoiano per cause evitabili sembrerà barbarico quanto lasciare che il colera si diffonda nell’acqua potabile quando esistono già i sistemi di depurazione.
Questo gap generazionale non è nuovo. È successo con chi ricorda la poliomielite e chi non l’ha mai temuta. Con chi ha conosciuto la fame e chi non riesce nemmeno a immaginarla. Ma questa volta il divario scava più a fondo, perché riguarda il modo stesso in cui definiamo il valore della vita. Quando cresci in un mondo dove la morte per caso è stata messa fuori dall’equazione, cosa resta del coraggio? Dell’eroismo del salvataggio, quando il salvataggio non serve più?

Dove si sposta il confine del pericolo
La risposta potrebbe essere che la creatività umana si sposta dalla risposta al disastro alla sua prevenzione. La mentalità “senza incidenti” spingerà l’innovazione verso la medicina predittiva, le infrastrutture auto-riparanti, gli ecosistemi di sicurezza imposti dall’intelligenza artificiale. Il confine del pericolo non sarà più sulle autostrade: sarà nello spazio profondo, nelle miniere oceaniche, nei laboratori di computazione quantistica dove le poste in gioco sono intellettuali, non mortali.
E forse è giusto così. Forse l’idea che dovevamo accettare un milione di morti all’anno perché “si sa che guidare è pericoloso” era solo pigrizia mascherata da realismo. Forse la generazione senza incidenti ci ricorderà che la sicurezza non è un lusso, è il sistema operativo di base di una civiltà che si rispetta. E che ogni volta che diciamo “è sempre stato così”, stiamo solo ammettendo di non aver provato abbastanza forte a cambiarlo.
Nel 2045, i bambini nati oggi non penseranno solo che le auto sono sicure. Penseranno che il mondo deve esserlo. E quando una generazione intera pretende che ogni fallimento sia inaccettabile, il mondo non ha altra scelta che adeguarsi.
O almeno provarci.