Londra, una sala d’attesa del NHS, il servizio sanitario britannico. Sulla parete c’è un manifesto: “Corso di stand-up comedy su prescrizione medica”. Non è una battuta (se lo fosse, avrei finto di ridere per non sembrare imbecille) e non è da ieri: non so se sapete, ma da ben tre anni il sistema sanitario britannico dà soldi a uomini con disturbi mentali perché imparino a raccontare le proprie tragedie davanti a un microfono. E la notizia è che sta funzionando.
Il programma si chiama Comedy on Referral ed è nato da un’intuizione di Angie Belcher, comica e facilitatrice di Bristol. Dopo dieci anni passati a insegnare comicoterapia in workshop privati, ha notato un pattern: gli studenti tornavano dicendo di sentirsi più forti, resilienti.
Allora ha trasformato il metodo in protocollo terapeutico. Ora, nell’anno del signore 2025, il sistema sanitario nazionale l’ha adottato in 10 ospedali pubblici e otto quartieri di Londra.
Come funziona la comicoterapia prescritta dal medico
Il corso dura sei settimane. I partecipanti (uomini adulti ad alto rischio suicidio) vengono indirizzati dal team di prescrizione sociale dell’NHS. Niente pillole, niente sedute con lo sguardo basso: un palco, un microfono e il compito di ridere o far ridere di quello che ti ha quasi ammazzato. Alla fine producono un “pezzo” di cinque minuti che presentano davanti a un pubblico di almeno cento persone.
Un po’ come costringere chi ha paura del vuoto a lanciarsi col paracadute. Solo che qui il vuoto è la propria storia personale, e il paracadute è una battuta ben scritta. Lourdes Colclough, responsabile prevenzione suicidi di Rethink Mental Illness (l’organizzazione partner), lo dice piuttosto pragmaticamente:
“Questi uomini non si presenterebbero mai a un corso con scritto ‘prevenzione del suicidio’. Ma a un laboratorio di stand-up sì”.
Secondo uno studio pubblicato su Frontiers in Psychology, i workshop di comicoterapia migliorano connessione sociale, identità personale e capacità di dare significato alle esperienze traumatiche. Nei partecipanti si osserva una riduzione di ansia e sintomi depressivi già dopo quattro settimane. Il meccanismo? Trasformare il dolore in narrativa controllata.
Perché lo stand-up funziona meglio del silenzio
La comicoterapia non è l’unica forma di terapia basata sulla risata (esiste anche lo yoga della risata, per dire), ma è l’unica che comporta il fare comicità attiva come leva terapeutica. Il paziente non guarda Netflix per rilassarsi: scrive, prova, suda freddo, sale sul palco. È un’esposizione controllata al giudizio altrui, con l’aggravante che tu stesso stai mettendo in scena le tue ferite.
La psicologa clinica che ha analizzato il programma, evidenzia un aspetto chiave: “Usare l’umorismo come strumento terapeutico, anziché incorniciare il corso come terapia, facilita una prospettiva più leggera sui traumi passati”.
In altre parole, come scrivevo prima, se chiami una cosa “terapia”, molti scappano. Se la chiami “corso di stand-up”, entrano.
E poi c’è il gruppo. Uno dei partecipanti, un uomo che ha affrontato dipendenze e trauma, racconta: “C’è questa mentalità da vittima in cui porti il dolore sulle spalle ogni giorno. Qui puoi tirarlo fuori dal petto e riderne insieme agli altri”. Il palco diventa uno spazio dove dire pubblicamente cosa significa essere umani, senza il peso del segreto. E nell’era che viviamo questa cosa vera, umana, in carne e ossa, può essere oro.
La scienza dietro la battuta perfetta
La ricerca sulla comicoterapia è ancora giovane, ma promettente. Uno studio del 2025 pubblicato su Mental Health and Social Inclusion sottolinea che lo stand-up offre un mezzo potente per riformulare esperienze traumatiche, favorire connessione sociale e migliorare resilienza emotiva. I comedians con esperienze neurodivergenti riportano benefici particolarmente significativi nel riappropriarsi della propria narrativa.
La comicoterapia innesca una cascata fisiologica: ridere riduce il cortisolo (ormone dello stress), stimola le endorfine (analgesici naturali), migliora la circolazione. Ma il vero trucco è che mentre ridi di te stesso, stai anche prendendo distanza emotiva da ciò che ti ha fatto male. È un meccanismo di difesa adattivo, trasformato in arte.
Angie Belcher ha insegnato comicoterapia anche in carceri, centri di salute mentale e a veterani dell’esercito. Il metodo funziona su popolazioni diverse perché tocca un bisogno universale: controllare la propria storia.
Chi sale su un palco non è più oggetto del trauma, ma autore del racconto.
I limiti della risata prescritta
Non tutti i traumi si risolvono con una battuta. Il NHS stesso chiarisce che Comedy on Referral non sostituisce la psicoterapia tradizionale, ma la affianca. Funziona come porta d’ingresso: chi rifiuterebbe uno psicologo, accetta un microfono. Una volta dentro, il percorso può evolversi verso cure più strutturate.
E poi c’è il rischio che il pubblico non rida. Belcher lo sa: “Lo stand-up è nella lista delle paure più grandi del 90% delle persone”. Ma è proprio questo il punto. Affrontare quella paura, in un contesto protetto con il supporto di professionisti, insegna che si può sopravvivere al fallimento. E questa, per chi ha vissuto traumi devastanti, è una lezione che vale più di molte sedute.
Resta il fatto che scalare il palco non toglie le cicatrici. Però le rende visibili, condivisibili, umane. E a volte, questo basta per ricominciare a camminare.