Il nuovo coronavirus ha portato la nostra società al minimo possibile. Ha chiuso aziende, ha annullando grandi riunioni e ci tiene tutti in casa. Tutti si chiedono la stessa cosa: quando ci sarà il ritorno alla normalità?
La risposta è semplicissima: quando una parte sufficiente della popolazione (tra il 60 e l’80% delle persone) sarà immunizzata al COVID-19 e/o in grado di frenare la diffusione della malattia da persona a persona. Questo è l’obiettivo finale, anche se nessuno sa esattamente quanto tempo ci vorrà per arrivarci. Gli scenari dell’uscita da questo incubo del coronavirus, d’altra parte, sono diversi.
La strada lunga e la strada corta
Esistono due percorsi realistici e brutali per raggiungere la famosa “immunità di gregge”. Uno è lo sviluppo di un vaccino. L’altro è che la malattia si faccia strada, uccidendo sicuramente molti, ma lasciando anche molti altri immuni. Questa è la tesi “inglese” (cambiata poi in buona parte). Non sapendo ancora se il recupero dalla malattia conferisca un’immunità, per non parlare dell’immunità permanente, io non la considererei una prima scelta.
Sfortunatamente, entrambi questi scenari del coronavirus potrebbero essere lunghi un anno o due, ma nel frattempo i gradi di normalità saranno probabilmente riconquistati. Assolutamente non a Pasqua, come vorrebbero Renzi o Trump. Ma questa estate, ad esempio, potremmo ritrovare ristoranti aperti ma niente concerti, uffici aperti ma niente spiagge affollate, bar con spazi distanziati tra i posti a sedere.
Immaginare modelli di ritorno alla vita quotidiana sarebbe più semplice se le autorità avessero una visione completa di chi è infetto, guarito, immune o suscettibile. Informazioni che emergerebbero da test diffusi, che il mondo è molto lento a dispiegare.
Per questo la strategia adottata è quella dell’auto-isolamento. Può rallentare la diffusione del virus, risparmiando il più possibile agli ospedali del paese un sovraccarico catastrofico di pazienti. Questo purtroppo comporta il costo del congelamento della vita quotidiana.
Gli epidemiologi hanno sottolineato che non hanno idea di quando la vita sarà “scongelata”, ma qua e là si evince una serie di possibili scenari su come potremmo riprendere alcune attività dopo (o anche durante) il coronavirus. Di seguito sono divisi per tempistiche alcuni punti di svolta da tenere d’occhio nelle prossime settimane, mesi e anni.
Scenari da 1 a 2 mesi

Devo notare che gli esperti pensano che questa tempistica sia altamente improbabile. Ma molte misure di distanziamento sociale potrebbero terminare in un mese o due se il coronavirus si rivelasse “improvvisamente un patogeno meno serio”. È quanto ad esempio ha affermato William Hanage, professore di epidemiologia presso la Harvard T. H. Chan School of Public Health. “Gli infetti di secondo e terzo grado potrebbero manifestare una malattia molto lieve e sviluppare rapidamente una immunità.” Questa circostanza ipotetica sarebbe certamente fantastica. Ma produrrebbe anche “un sacco di grattacapi” tra gli esperti di sanità pubblica, per la difficoltà estrema di individuare con precisione questa presunta immunità per zone, età, tipologia di soggetti.
Un altro percorso per una risoluzione a breve termine è molto più semplice: un minore distanziamento sociale produrrebbe quello che Andrew Noymer, professore di sanità pubblica presso l’Università della California, definisce uno “shock grande, breve, acuto”. In altre parole: molte infezioni nei prossimi mesi, sistema sanitario travolto e morte di moltissime persone. Dopo una simile catastrofe si presume che molte persone si immunizzino.
Entrambe queste eventualità farebbero bene a restare nel cassetto almeno per altri due mesi, nel bene e nel male. Per allora gli esperti di sanità pubblica avranno imparato di più sul virus da allora. Tra un mese o due, le autorità e i ricercatori della sanità pubblica avranno probabilmente un’idea più chiara anche sull’eventuale immunità acquisita dai guariti, e in tal caso, per quanto tempo. Tali informazioni saranno utili per gli sforzi di contenimento.
Scenari da 3 a 4 mesi

Questo scenario si può verificare nell’ipotesi in cui lo sviluppo capillare (e l’uso) di test rapidi o rapidissimi ci faccia scoprire di avere già una sostanziale immunità di massa a questo virus.
In tal senso è importante lo sviluppo di due tipologie di test: uno che rileva la presenza del virus stesso e uno che rileva gli anticorpi che le persone sviluppano quando sono immuni ad esso.
Con queste nuove informazioni, ha affermato Hanage, sarebbe possibile isolare le persone contagiose o più vulnerabili, mentre gran parte della popolazione ritorna a qualcosa che ricorda la vita normale.
“Ci sarebbero un minor numero di tavoli in un ristorante, o un numero minore di persone in un bar”, ha detto. Nel frattempo, se alcuni luoghi hanno un’incidenza della malattia molto maggiore rispetto ad altri, le persone in quelle regioni o città potrebbero uscire di casa prima o durante periodi diversi rispetto alle persone in altre parti del paese.
Michael Stoto, professore di amministrazione dei sistemi sanitari e salute della popolazione alla Georgetown University, definisce tre variabili che determinano la diffusione di una malattia:
- Quante persone infette o contatti su superfici contaminate in media si incontrano in un giorno;
- Quante possibilità di trasmissione del virus ci sono in queste situazioni;
Se test più mirati iniziassero a fornire un quadro più completo della diffusione del virus, le autorità sanitarie potrebbero scegliere di concentrarsi su una variabile più di un’altra.
Ad esempio, se i dati dei test indicassero che serve ridurre il numero di incontri delle persone, forse i ristoranti e le piccole imprese riaprirebbero, ma eventi grandi e affollati verrebbero cancellati. Insomma, una “normalità” ad assetto variabile.
In tre o quattro mesi, i ricercatori potrebbero aver identificato un trattamento per COVID-19. Magari non una cura, ma qualcosa che potrebbe alleviare i sintomi in modo rapido e affidabile, evitando le morti. Questo non eliminerebbe la continua necessità di allontanamento sociale, poiché sarebbero ancora possibili focolai su larga scala, ma potrebbe ridurre il rischio di sovraccaricare gli ospedali del paese se si verificasse un focolaio.
Per Hanage, questa sequenza temporale è più probabile degli scenari del coronavirus più brevi.
Scenari da 4 a 12 mesi

Una grande domanda irrisolta su COVID-19 è se, come l’influenza, la sua diffusione rallenterà sostanzialmente durante l’estate.
I ricercatori hanno alcune teorie sul perché l’estate è una stagione ostile all’influenza: temperature più elevate e un aumento delle radiazioni UV sono letali per alcuni virus. Le scuole sono chiuse e tolgono al virus un terreno fertile cruciale. Ma non è ancora noto se una di queste teorie si può applicare al coronavirus.
Qui gli scenari possibili diventano due: in uno, il coronavirus si ritira in estate. Nell’altro no. In entrambi, almeno alcune delle misure di allontanamento sociale attualmente in atto continueranno anche nella seconda metà dell’anno.
Nel primo caso il virus si ritira in estate. L’estate sarebbe un po’ più divertente rispetto alla primavera, almeno nell’emisfero settentrionale. Probabilmente sarebbero ammesse attività all’aperto in piccoli gruppi. Forse riaprirebbero bar e ristoranti. Ma probabilmente ci sarebbe un freno a grandi incontri. Niente stadi, niente concerti, niente spiagge, ancora niente cinema (se non magari all’aperto e con distanze giuste).
I campionati potrebbero riprendere in estate ma senza pubblico, i programmi TV continuerebbe a rinunciare al pubblico in studio. Nel frattempo, i negozi potrebbero continuare a limitare il numero di acquirenti autorizzati. Scordiamoci le grandi folle per un po’ di tempo, ma su piccola scala ci sarebbero meno limiti e la vita tornerebbe sicuramente a livelli più accettabili.
Potrebbe anche essere (relativamente) sicuro spostarsi per vedere i propri cari. Se la probabilità di essere infettati si riduce e si diffonde ovunque, sotto casa come altrove, le restrizioni di viaggio avrebbero poco senso. Sicuramente però stazioni ed aeroporti avrebbero accessi contingentati.
L’aspetto negativo di questa estate più vicina a quella “normale” è che ci sarebbe una forte possibilità (anche se comunque non una certezza) di una ripresa della malattia enteo sei mesi. Questa “ricaduta” di infezioni potrebbe tornare a partire da ottobre, reintroducendo la necessità del distanziamento sociale.
Questo distanziamento sociale potrebbe essere uguale a quello attuale, o leggermente alleggerito: a quel punto, molte persone avrebbero potuto sviluppare una eventuale immunità e teoricamente potrebbero uscire senza rischiare l’infezione. E sapremmo ancora di più anche sul virus. Se per l’autunno avessimo la piena certezza che i bambini hanno forti resistenze a contagiarsi, ma soprattutto a diffonderlo, le scuole potrebbero persino riaprire.
Entro tre o quattro mesi, i paesi saranno comunque in una posizione migliore per assorbire un’altra ondata di infezioni. L’estate sarebbe un buon momento per produrre più respiratori, aumentare le dotazioni di posti in terapia intensiva. Aumenterebbe il magazzino di equipaggiamenti protettivi che gli operatori sanitari indossano per prevenire l’infezione.
Se usassimo la pausa estiva per rafforzare la nostra risposta in autunno, insomma, col giusto rinforzo il distanziamento sociale potrebbe essere ulteriormente ridimensionato.
E veniamo al secondo dei “sotto scenari”: quello in cui il coronavirus non si ritira neanche in estate. L’attuale picco si ridurrebbe per le misure di isolamento adottate ora, ma il rischio di una ripresa rimarrebbe elevato nei mesi più caldi. Se il numero di casi non diminuisse in modo significativo entro l’inizio di metà giugno, ha detto Noymer, sapremmo che il virus non è stagionale.
A quel punto, le misure di distanziamento sociale potrebbero essere modificate in base alla situazione. Con la possibilità sempre presente di altre ondate di infezioni, la quarantena potrebbe continuare esattamente come adesso. Nel caso gli ospedali fossero più attrezzati, però, il distanziamento sociale potrebbe essere ridimensionato. Potrebbero esserci più lavoro fuori casa e un leggero aumento della socialità, ma sarebbe ancora un mondo con lavaggi rigorosi delle mani, starnuti soffocati e generose quantità di disinfettante per le mani. Con ogni probabilità, le persone che possono lavorare in remoto o ordinare cibo tramite consegna lo farebbero comunque invece di uscire di casa.
Scenari da 12 a 18 mesi (e oltre)

La primavera del 2021 è il periodo che tutti attendono per vedere un vaccino. “Qualunque tempistica più veloce sarebbe record mondiale, sarebbe velocità della luce”, dice Noymer. Se si tratta di un progetto approssimativo da perfezionare richiederà ancora più tempo, probabilmente altri sei mesi o un anno dopo la prossima primavera.
I vaccini, come ho scritto qui, impiegano così tanto tempo perché sono difficili da perfezionare. Viene condotta una serie di prove metodiche per assicurarsi che non danneggino le persone sane, che generino gli anticorpi desiderati e che quegli anticorpi difendano effettivamente dalla malattia. Non sono eccessive tutele burocratiche: se devi iniettare qualcosa (o mettere in bocca) a centinaia di milioni, probabilmente miliardi, di persone, serve studiarla bene.
E se funziona, la vita normale riprenderà, ma non immediatamente. La logistica della vaccinazione di milioni di persone non è un’impresa da poco. E anche supponendo che non tutto arrivi in un unico grande lotto, servirà una sorta di sistema per determinare chi ottiene le prime dosi. Le persone più vulnerabili alla malattia? Gli operatori sanitari?
Nell’esame di tutti gli scenari del coronavirus, poi, non me ne vogliate, è anche possibile che nessuno sia in grado di sviluppare un vaccino sicuro ed efficace. Sarebbe una delusione, ma anche in questo caso a 12-18 mesi saremmo sulla buona strada per l’immunità a livello di popolazione, raggiungendola sicuramente entro l’autunno del 2021. E fino ad allora probabilmente non saremmo rinchiusi per più di un anno. Anche in un mondo senza vaccini, raggiungere l’immunità a livello di popolazione significa che i futuri focolai di COVID-19 sarebbero molto meno dannosi di quello attuale. Il virus potrebbe rimanere minaccioso e continuare a circolare, infettando le persone come e più di quanto facciano il raffreddore o l’influenza.