Quando aprite il frigorifero, avete mai pensato a quanto il cibo che trovate sia legato a una catena di fornitura globale estremamente fragile? La catastrofe che potrebbe metterci alla fame non è così improbabile come potremmo pensare. Uno studio pubblicato su PLOS One da un team di ricercatori neozelandesi ha esaminato questo scenario inquietante, mettendo in luce come l’agricoltura urbana (quella degli orti cittadini e dei giardini comunitari) potrebbe sfamare solo un quinto della popolazione in caso di collasso commerciale. Un numero francamente deprimente. La ricerca però non si è fermata qui, ha anche calcolato quanta terra periurbana (quella appena fuori dalla città) sarebbe necessaria per garantire la sopravvivenza di tutti. E, fatemelo dire, i risultati mostrano che salvarci è possibile, ma servono strategie che forse non stiamo nemmeno considerando.
Più di semplici orti urbani
La sopravvivenza in caso di catastrofe, che sia una guerra nucleare, una pandemia estrema o una tempesta solare, dipenderà dalla nostra capacità di produrre cibo localmente. I ricercatori Matt Boyd e Nick Wilson dell’Università di Otago hanno utilizzato come caso di studio Palmerston North, una città neozelandese di medie dimensioni (90.000 abitanti circa) considerata rappresentativa di molte realtà urbane nel mondo. In Italia, per capirci, si tratterebbe di città come Trieste, Padova, Bologna, Trento, Verona, e molte altre.
L’analisi delle immagini di Google Earth ha portato a una conclusione preoccupante: coltivando ogni spazio disponibile in città (giardini privati, tetti, parchi) si riuscirebbe a nutrire solo circa il 20% degli abitanti. Per sfamare l’intera popolazione servirebbe coltivare almeno 1.140 ettari aggiuntivi di terreno nelle immediate vicinanze, più altri 110 ettari per produrre i biocarburanti necessari ai macchinari agricoli.
Le colture salva-vita

Lo studio si spinge fino a identificare le colture più efficienti in diverse condizioni. In clima normale, i piselli risultano vincenti per massimizzare proteine e calorie minimizzando l’uso del terreno. Ma in caso di “inverno nucleare” (quando polvere e fuliggine nell’atmosfera ridurrebbero drasticamente la luce solare) barbabietole da zucchero e spinaci diventerebbero le migliori scelte urbane, mentre frumento e carote andrebbero coltivati nelle aree periurbane.
In caso di catastrofe? Cooperazione, non bunker
“Sono scettico sul fatto che i ‘bunker dei miliardari’ siano particolarmente utili dopo una catastrofe se la civiltà necessita effettivamente di un riavvio”, afferma Boyd. Penso abbia ragione. “Probabilmente sono necessarie misure di cooperazione a livello sociale”. Una dichiarazione che mi trova perfettamente d’accordo e che sottolinea come la vera resilienza non stia nei rifugi high-tech di pochi privilegiati, ma nella capacità delle comunità di organizzarsi e collaborare.
La prossima volta che passeggiate per la vostra città, guardate con occhi diversi quegli spazi verdi, quel cemento (da sostituire magari con erba e terreno attraverso il depaving), quei terreni incolti e persino i tetti piani degli edifici. In un futuro incerto, potrebbero diventare la nostra àncora di salvezza.