Sedie che si sfasciano dopo un anno, telefoni che rallentano misteriosamente, vestiti che si rovinano al primo lavaggio. Ma anche luci automatiche dei bagni che si spengono a capriccio e articoli di giornale scritti spudoratamente con ChatGPT. Stiamo davvero vivendo nell’era della qualità decadente o è cambiato il nostro modo di percepire il valore?
Se chiudiamo il cerchio, una ricerca pionieristica di oltre 40 anni fa e i dati più recenti sull’economia circolare ci raccontano entrambi una storia complessa in cui consumatori, produttori e ambiente si trovano intrappolati in un ciclo che sta decide pessime regole del gioco. Per tutti. Ma andiamo con ordine. Cosa è andato storto, e in quale momento esattamente?
Quando la qualità divenne soggettiva
Nel 1976, quando i nostri genitori compravano ancora elettrodomestici “per la vita”, il ricercatore E. Scott Maynes pubblicò uno studio che oggi suona profeticamente attuale. Si chiamava “The Concept and Measurement of Product Quality”. In questo saggio, Maynes dimostrava che la qualità è un concetto intrinsecamente soggettivo, dipendente dalle preferenze di ciascun consumatore.
Seguendo il suo ragionamento, oggi non si potrebbe affermare in termini assoluti che un iPhone 15 sia di “qualità migliore” rispetto a un Nokia del 2003. Perché? Semplice. Perché per alcuni consumatori la durabilità estrema del Nokia vale più delle innovazioni tecnologiche dell’iPhone.

In altri termini? Le cose non sono peggiori, sembrano solo peggiori. Sono personalmente molto perplesso, non so quanto concordo. In ogni caso, perché questa percezione è diventata così diffusa? Javier Carbonell, vicedirettore del Future Policy Lab, spiega che esiste un pessimismo che permea gran parte della popolazione, facendo apparire tutto inferiore. Questo clima influenza i giudizi che facciamo sulle politiche implementate e anche sui prodotti che consumiamo.
Il problema principale è che la grande promessa del capitalismo (se lavori, puoi avere una vita dignitosa, comprare una casa e andare in vacanza) non si sta realizzando. E qui magari posso anche concordare.
La cultura dell’efficienza e l’era dei tagli
Secondo Carbonell, la “cultura dell’austerità” emersa dopo la Grande Recessione (2008-2014) è stata sostituita da una “cultura dell’efficienza”, incarnata da figure come Elon Musk, che promuove un modello volto a minimizzare i costi. Lo ha applicato prima su X (ex Twitter), dove ha licenziato oltre il 75% della forza lavoro, e poi nel governo americano. Frenate, fanboy e haters di Musk: lui non è il solo. Mark Zuckerberg ha definito il 2023 “l’Anno dell’Efficienza” e ha effettuato licenziamenti di massa in Meta. Amazon, come molte altre aziende, ha gradualmente sostituito (in barba alle dichiarazioni di facciata) i lavoratori umani con robot e sistemi automatizzati, al punto che in alcuni dei suoi magazzini non c’è nemmeno bisogno di accendere le luci.

In tema di degrado, non c’è solo il peggioramento (percepito o reale) della qualità dei prodotti, ma anche quello dei servizi. Un esempio? La sanità italiana. In Italia, tra il 2017 e il 2022, il numero di persone con assicurazione sanitaria privata è cresciuto del 4% all’anno. La ragione principale per cui gli italiani si stanno allontanando dal sistema sanitario pubblico? Le liste d’attesa infinite. I servizi sanitari potrebbero non essere peggiorati in termini assoluti, ma non si sono adattati al ritmo del cambiamento sociale.
Obsolescenza programmata: quando la qualità diventa strategia
Mi perdonino gli studiosi, ma io resto convintissimo che ci sia qualcosa di più profondo e calcolato dietro il deterioramento percepito della qualità. L’obsolescenza programmata non è una teoria del complotto: è una strategia commerciale documentata che risale addirittura al 1924 con il Cartello Phoebus, quando i principali produttori mondiali di lampadine decisero di limitarne arbitrariamente la durata a 1.000 ore rispetto alle 2.500 originali.
Oggi questo fenomeno interessa principalmente dispositivi elettronici ed elettrodomestici. Smartphone, computer, lavatrici, lavastoviglie e frigoriferi sono progettati per “iniziare a morire” già poco dopo la scadenza della garanzia. Nel 2021 sono state 54,7 milioni le tonnellate di rifiuti elettronici prodotte globalmente, con una crescita annua di 2 milioni di tonnellate. Una quantità che supera il peso della Grande Muraglia Cinese.
L’80% circa degli apparecchi rotti non è più aggiustabile ed è spedito in discariche a cielo aperto nei paesi del terzo mondo. Una delle soluzioni su cui si sta lavorando è l’ecodesign, un modello di economia circolare. Molto fumo, poco arrosto.
La Direttiva UE 2024/1799, nota come “direttiva sul diritto alla riparazione”, rappresenta il primo tentativo serio di contrastare questo fenomeno. Obbliga i produttori a garantire la disponibilità di pezzi di ricambio e manuali di riparazione per un periodo prolungato, facilitando la riparabilità dei beni. Una gran bella cosa, l’ho anche scritto: ma la vedremo davvero applicata nel modo giusto?

Quando abbiamo smesso di avere standard
In un libro del 2022 che ha un titolo davvero poco evasivo, “Crap: A History of Cheap Stuff in America”, la storica Wendy A. Woloson traccia l’origine di questo cambiamento a metà del XIX secolo. Prima di allora, poche persone possedevano molte cose. Gli oggetti erano tipicamente multifunzionali: un tavolo poteva servire come superficie di lavoro di giorno e tavolo da pranzo di notte. Le cose venivano curate e riparate.
Con l’espansione dei mercati e l’avvento della produzione di massa, iniziarono ad apparire beni più economici e accessibili. Le persone rimasero incantate dal mix di varietà e prezzo basso, come se si fossero imbattute in un tesoro segreto a costo minimo. Nel tempo, le tendenze della moda si fusero con i prodotti economici, e comprare qualcosa di nuovo divenne quasi obbligatorio.
Il caso del tessile illustra perfettamente questa trasformazione. Come spiega Marta D. Riezu, autrice di “La moda justa” (2021): “Consumiamo abbigliamento come se fosse un articolo usa e getta”. Negli ultimi 20 anni, la produzione tessile è raddoppiata. In Italia, si stima che ogni cittadino butti circa 21 chilogrammi di vestiti all’anno.
L’intelligenza artificiale e la qualità dei servizi
La tecnologia può migliorare la qualità dei prodotti, ma può anche aumentare mediocrità e difetti. L’intelligenza artificiale è un esempio lampante. In pochi anni, le aziende hanno affidato gran parte del loro servizio clienti ad algoritmi e robot. Secondo un rapporto Salesforce del 2024, il 62% di questi servizi in Italia è già automatizzato.
Il problema è che nessuno apprezza questi sistemi: secondo uno studio dell’Osservatorio Cetelem, cinque consumatori su dieci rifiutano apertamente gli assistenti virtuali. José Francisco Rodríguez, presidente dell’Associazione Spagnola degli Esperti di Relazioni con i Clienti, sostiene che l’intelligenza artificiale non fa risparmiare denaro o personale: “L’investimento iniziale in tecnologia è estremamente elevato, e i benefici rimangono praticamente gli stessi”.
C’è un danno ancora più sottile causato dall’AI: uno strumento chiave guadagnato da internet (le vere opinioni di altri utenti) è stato reso inutile. Un’analisi del 2020 di Fakespot su 720 milioni di recensioni Amazon ha rivelato che circa il 42% erano inaffidabili o false. Quasi la metà delle recensioni che consultiamo prima di acquistare un prodotto online potrebbe essere stata generata da robot.
Il futuro della qualità in un mondo sostenibile
Guardando al futuro, emergono segnali contraddittori ma incoraggianti. I consumatori stanno diventando più consapevoli: secondo una ricerca Capgemini, oltre il 70% vuole adottare pratiche come ridurre i consumi complessivi, acquistare prodotti più durevoli e conservare e riparare i prodotti per aumentarne la durata.
L’economia circolare sta guadagnando terreno. Come vi raccontavo in questo articolo, la transizione verso questo modello potrebbe generare benefici economici per oltre 1.800 miliardi di euro entro il 2030. L’Unione Europea ha fatto dell’economia circolare uno dei pilastri del Green Deal, e sempre più aziende stanno adottando modelli di business basati sulla durabilità.
Tuttavia, le sfide rimangono enormi. Le aziende faticano ancora a intraprendere azioni concrete legate a pratiche di economia circolare, nonostante i consumatori si rivolgano sempre di più a quelle che lo fanno. Il prezzo rimane spesso il fattore decisivo: il 69% dei consumatori italiani preferisce il Made in Italy, ma spesso non è disposto a pagare il sovrapprezzo necessario per garantire qualità e sostenibilità.
La traiettoria futura dipenderà da tre fattori chiave: l’educazione dei consumatori, l’innovazione tecnologica sostenibile e le politiche normative. Blockchain per tracciare l’origine dei materiali, intelligenza artificiale per ottimizzare i processi di raccolta e separazione dei rifiuti, nuove tecnologie di riciclo che permettono di recuperare materiali preziosi: la tecnologia può essere parte della soluzione, non solo del problema.
Il vero test sarà vedere se riusciremo a superare la mentalità dell’usa e getta e riscoprire il valore della durabilità, della riparazione e del riutilizzo.
Non è solo una questione di qualità dei prodotti: è una questione di qualità della vita e del futuro del pianeta. La palla, ora, è nel nostro campo di consumatori consapevoli. Come ce la giocheremo?