I numeri non mentono: 60% del PIL mondiale, due terzi della crescita globale, 4 miliardi di persone. L’Indo-Pacifico non è più una regione emergente, è il cuore pulsante dell’economia planetaria. Eppure l’ordine mondiale costruito dopo la Seconda Guerra Mondiale continua a gravitare attorno all’Atlantico, come se Shanghai valesse quanto Marsiglia, o come se il Mar Cinese Meridionale fosse una pozza insignificante.
La realtà è che stiamo assistendo al più grande spostamento di potere geopolitico degli ultimi 500 anni. Il sistema internazionale che ha governato il mondo per ottant’anni mostra crepe sempre più evidenti. Mentre i leader occidentali si concentrano ancora su dinamiche novecentesche, l’Indo-Pacifico sta riscrivendo le regole del gioco con una velocità che lascia senza fiato. E i segnali di questo cambiamento epocale sono sotto gli occhi di tutti, basta saperli leggere.
Primo segnale: la Cina detta i tempi del multipolarismo

Pechino ha smesso di nascondersi dietro la retorica dello “sviluppo pacifico”. Xi Jinping non parla più di ascesa graduale, ma di leadership globale entro il 2049, centenario della Repubblica Popolare. La strategia cinese è chirurgica: mentre gli Stati Uniti si impantanavano in Afghanistan e Iraq per vent’anni, la Cina costruiva la Belt and Road Initiative, la più grande rete infrastrutturale della storia umana.
Il risultato? Un impero economico che si estende dall’Africa al Pacifico, costruito non con le bombe ma con porti, ferrovie e fibra ottica. Oggi Pechino controlla asset strategici in oltre 70 paesi, dalle miniere di litio in Africa ai terminal portuali europei. Non è colonialismo digitale, è qualcosa di molto più sofisticato: un nuovo ordine mondiale dove la Cina occupa il centro e l’Occidente la periferia.
Il primo segnale del cambiamento è evidente nei numeri: secondo il Munich Security Report 2025, i paesi BRICS contribuiscono ormai al 40% del commercio globale. Non stiamo parlando di crescita futura, ma di realtà presente che l’Occidente fatica ancora ad accettare.
Secondo segnale: l’alleanza atlantica perde pezzi

La NATO può celebrare quanto vuole i suoi successi in Europa, ma nell’Indo-Pacifico conta quanto un ombrello durante un uragano. L’Australia l’ha capito per prima: l’accordo AUKUS con Stati Uniti e Regno Unito rappresenta il primo tentativo occidentale di creare un’architettura di sicurezza seria nel Pacifico. Ma è troppo poco, e probabilmente troppo tardi.
Il vero problema non sono i sottomarini nucleari australiani, ma il fatto che l’India, il gigante democratico dell’Asia, giochi contemporaneamente su tre tavoli: il Quad con gli Stati Uniti, i BRICS con la Cina e la partnership strategica con la Russia. Narendra Modi ha trasformato New Delhi nella Svizzera dell’Indo-Pacifico: grossomodo neutrale, grossomodo pragmatica, e soprattutto immune alle pressioni occidentali. Grossomodo.
Il dato più lampante? I paesi del Sud-Est asiatico stanno diversificando i loro partner strategici come mai prima. Singapore ospita basi navali americane ma firma accordi commerciali miliardari con Pechino. La Thailandia compra armi dalla Cina e organizza esercitazioni militari con gli USA. È il multipolarismo applicato: nessuno vuole più scegliere da che parte stare.
Terzo segnale: l’economia mondiale parla cinese

Il dollaro resta la valuta di riserva mondiale, ma per quanto ancora? La Cina ha lanciato lo yuan digitale, la Russia e l’Iran commerciano in rubli e rial, i paesi BRICS stanno sviluppando sistemi di pagamento alternativi a SWIFT. Non è una minaccia immediata al sistema finanziario occidentale, ma è l’inizio della fine del monopolio americano.
Più significativo ancora è il controllo cinese delle filiere strategiche. Pechino domina l’estrazione e soprattutto la raffinazione delle terre rare (oltre il 80% del mercato globale), controlla la produzione di batterie al litio e ha praticamente monopolizzato la manifattura dei pannelli solari. Quando la transizione energetica accelererà, se la situazione non cambia l’Occidente dovrà inginocchiarsi davanti alla Cina per ottenere le tecnologie che gli servono.
Il paradosso è che mentre Washington parla di decoupling dalla Cina, l’interdipendenza economica continua a crescere. Le aziende americane investono in Cina più di quanto ammettano pubblicamente, e le supply chain globali passano tutte per il Dragone. È impossibile “disaccoppiare” da un paese che produce il 30% della manifattura mondiale. E la tregua commerciale voluta (e prolungata) da Trump dice tutto.
Quarto segnale: le istituzioni internazionali sono paralizzate

L’ONU, la Banca Mondiale, il FMI: tutte istituzioni nate quando l’Asia era povera e l’Africa colonizzata. Oggi questi organismi sembrano musei del secolo scorso, incapaci di rappresentare un mondo dove l’Asia produce più ricchezza dell’Occidente. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU è una barzelletta: cinque paesi decidono per otto miliardi di persone, basandosi su equilibri di potere che risalgono al 1945.
La risposta del Sud globale è stata pragmatica: creare istituzioni alternative. La Asian Infrastructure Investment Bank ha 100 membri e capitale di 100 miliardi di dollari. La Shanghai Cooperation Organization riunisce metà della popolazione mondiale. I BRICS, ripeto, si stanno trasformando da club informale a blocco economico strutturato.
Come ha dichiarato un diplomatico di Singapore: “L’Occidente ci invita ai suoi tavoli per farci sedere nell’ultima fila. L’Oriente ci costruisce tavoli nuovi dove possiamo sederci in prima fila”.
Il messaggio è chiaro: se le istituzioni occidentali non si riformano, diventeranno irrilevanti. E la riforma significa cedere potere a paesi che l’Occidente ha sempre considerato junior partner.
Quinto segnale: la geografia batte l’ideologia
Durante la Guerra Fredda, il mondo si divideva lungo linee ideologiche: capitalismo contro comunismo, democrazia contro dittatura. Oggi le alleanze seguono logiche geografiche ed economiche. La Turchia è membro NATO ma compra sistemi missilistici russi. L’Arabia Saudita, alleato storico americano, aderisce ai BRICS e dialoga con l’Iran.
L’esempio più clamoroso è l’Italia: primo paese G7 ad aderire alla Belt and Road Initiative cinese durante il governo di Giuseppe Conte, salvo poi uscirne sotto pressione americana. Ma i rapporti commerciali con Pechino continuano a crescere, perché la geografia economica è più forte della pressione politica. Roma potrebbe “riscoprire” tra non molto che il futuro dell’economia italiana passa per l’Asia, non per i richiami di Washington.
Il quinto segnale del cambiamento, in sintesi, è che i paesi pensano prima ai loro interessi nazionali e poi alle alleanze ideologiche. Il risultato è un mondo più caotico ma anche più pragmatico, dove le partnerships cambiano a seconda del dossier: commercio con la Cina, sicurezza con gli USA, energia con la Russia.
Il nuovo ordine mondiale nasce nell’Indo-Pacifico
Questi cinque segnali convergono tutti verso la stessa conclusione: l’ordine mondiale del XXI secolo non si deciderà nelle sale del potere occidentali, ma nelle acque dell’Indo-Pacifico. Chi controllerà quella regione controllerà il pianeta, e al momento la partita è apertissima.
La Cina ha il vantaggio geografico e demografico, gli Stati Uniti mantengono la supremazia militare e tecnologica. Ma sono le potenze medie dell’Indo-Pacifico (India, Indonesia, Giappone, Australia) a tenere in mano le chiavi del futuro. Il loro allineamento determinerà chi vincerà la partita del secolo.
L’Europa, intanto, continua a guardare verso l’Atlantico come se fosse ancora il 1950. Ma il futuro non aspetta nessuno, soprattutto chi si ostina a non volerlo vedere. L’ordine mondiale che abbiamo conosciuto per ottant’anni sta finendo nell’Indo-Pacifico.
O saremo abbastanza smart per adattarci in tempo, o resteremo sotto egemonia militare ed economica di chi, per ripiego, “raschierá” tutto il possibile da penisola araba ed Europa.