Cosa penseranno di noi gli archeologi del 4000, quando scaveranno nelle nostre città sepolte? Troveranno tante vestigia del terzo millennio, certo: ma soprattutto troveranno la nostra plastica fossile. Tanta plastica. Fusa nelle rocce, incrostata sugli scogli, incorporata nei sedimenti di ogni oceano e continente. E se oggi ci sembra spazzatura, per loro sarà un archivio dettagliatissimo delle nostre abitudini, dei nostri consumi, dei nostri errori. La domanda è: ci giudicheranno come oggi noi giudichiamo i romani per il piombo nelle tubature?
C’è una scena memorabile ne Il mistero di Bellavista di Luciano De Crescenzo. Salvatore, dopo aver visitato una mostra di Pop Art, pone al professor Bellavista una questione che sembra frivola ma nasconde una vertigine filosofica: “Fra mille anni un muratore del Tremila, sotto le macerie di una villa qualunque, piglia e trova quest’opera di Wesselman (un’installazione pop art che raffigura l’interno di un bagno completo di lavabo, specchio e water, ndr). Secondo voi, cosa pensa di aver trovato: un capolavoro o nu’ cesso scassato?”.
Ecco, la plastica fossile ci mette davanti allo stesso dilemma, ribaltato. Gli archeologi del futuro non avranno dubbi su cosa stanno guardando (“nu’ cesso scassato”). Ma potrebbero restare perplessi sul perché ne abbiamo prodotta così tanta.
Quando la spazzatura diventa reperto
Il professor John Schofield dell’Università di York ha dedicato la sua carriera a studiare ciò che normalmente gettiamo via. Per lui, un sacchetto di plastica abbandonato su una spiaggia delle Galápagos non è diverso da un’anfora romana recuperata nel Mediterraneo. Entrambi sono manufatti. Entrambi raccontano una storia. La differenza è che la plastica fossile racconta una storia che preferiremmo non ascoltare.
“Possiamo usare le prove sugli oggetti per datarli, stabilire il loro scopo originale attraverso la morfologia, esaminare i dettagli del loro utilizzo precedente attraverso le tracce delle attività in cui erano coinvolti. È l’identico meccanismo, che si tratti di uno strumento di pietra, di un frammento di ceramica o di una bottiglia di plastica”.
I numeri dell’archivio tossico: dal 1950 l’umanità ha prodotto oltre 9,2 miliardi di tonnellate di plastica. Solo il 9% è stato riciclato, il 14% incenerito. Il restante 75% (circa 7 miliardi di tonnellate) è ancora da qualche parte: nelle discariche, negli oceani, nei terreni agricoli, nelle viscere dei pesci. E adesso anche nelle rocce.
La plastica fossile esiste già: si chiama plastiglomerato
Nel 2006, l’oceanografo Charles Moore raccolse qualcosa di strano su Kamilo Beach, alle Hawaii. Sembrava un sasso, ma era troppo leggero, troppo colorato. Conteneva basalto, frammenti di conchiglia, resti di reti da pesca, tutto fuso insieme da plastica sciolta. Sei anni dopo, nel 2012, la geologa Patricia Corcoran dell’Università dell’Ontario gli diede un nome: plastiglomerato. Era il primo reperto ufficiale di un’era geologica che non ha ancora un nome ufficiale, ma che i geologi chiamano già “Plasticene”.
Da allora sono stati catalogati altri ibridi inquietanti. I plasticrust sono croste di polietilene che si formano sugli scogli quando le onde sbattono ripetutamente sacchetti e bottiglie contro la roccia. I pyroplastic sono ciottoli leggeri come piume, plastica bruciata e levigata dal mare. I plastitar sono miscele di catrame e frammenti polimerici che si depositano sulle coste. A Trindade, in Brasile, queste formazioni minacciano già i nidi delle tartarughe verdi. La plastica fossile non è più una metafora: è geologia.
L’archeologia del presente
Nel 2024 è uscito The Routledge Handbook of Archaeology and Plastics, un volume di 32 saggi curato da Schofield e colleghi. Trentadue modi diversi di guardare la nostra spazzatura come se fosse già un reperto. Il libro esplora il confronto tra la produzione di massa del Novecento e le ere di consumo del passato, cercando nelle plastiche le stesse informazioni che gli archeologi tradizionali cercano nelle ceramiche: chi le ha fatte, come, perché, cosa raccontano della società che le ha prodotte.
Schofield definisce i rifiuti di plastica fossile “un archivio tossico”. La parola chiave è archivio. La plastica fossile non è solo inquinamento: è documentazione involontaria. Ogni bottiglia porta incisa la data di produzione, ogni sacchetto tradisce il supermercato di provenienza. Ogni rete da pesca racconta di una flotta, di una rotta, di un’economia. Gli archeologi del futuro avranno probabilmente materiale per ricostruire le nostre vite con una precisione che noi non abbiamo sui Romani. O no?
Plastica fossile, il giudizio dei posteri
Torniamo alla domanda di Salvatore, a parte la mia risposta sommaria. Il muratore del Tremila, cosa penserà di aver trovato? Nel caso della plastica fossile, in realtà la risposta è meno ambigua che per l’arte contemporanea. Saprà esattamente cosa ha trovato: i resti di una civiltà che produceva materiali eterni per usi effimeri. Che avvolgeva i cetrioli e le mele (una ad una) in polimeri destinati a durare cinquecento anni. Che disseminava microparticelle nei mari, nei fiumi, nel sangue dei propri figli.
E qui sta il paradosso che Schofield evidenzia. La plastica fossile è allo stesso tempo il problema ed il racconto del problema. Contiene gli indizi per capire come siamo arrivati a questo punto. È un po’ come se i Romani avessero lasciato, insieme alle tubature di piombo, anche i verbali delle sedute del Senato in cui decisero di usarlo (almeno loro non avevano coscienza della sua tossicità).
Un dato per riflettere: secondo le proiezioni OCSE, a dispetto di tutti i proclami “green”, entro il 2060 la produzione di plastica triplicherà. I rifiuti accumulati passeranno da 353 milioni a oltre un miliardo di tonnellate.
Il nostro archivio tossico sta crescendo più velocemente della nostra capacità di leggerlo.
Forse gli archeologi del 4000 saranno più clementi di quanto meritiamo. Forse capiranno che non sapevamo, almeno all’inizio. Che quando abbiamo iniziato a produrre plastica fossile non immaginavamo dove sarebbe finita. Oppure no, e guarderanno i nostri rifiuti come noi guardiamo le rovine di civiltà che disboscarono fino a estinguersi, e si chiederanno come abbiamo fatto ad essere così ottusi, a non vedere l’ovvio.
In fondo, il problema non è la plastica fossile in sé. È che stiamo ancora perseverando a produrre i reperti che ci giudicheranno.